| Appunti sulla natura e struttura del rapporto di giurisdizione 
        tra pastore e fedeli nella tradizione evangelica e nella dottrina teologico-canonica 
        medievale
  1. Nozione di «potestas iurisdictionis» e considerazioni generali 
        sulle posizioni giuridiche soggettive inerenti al rapporto tra Pastore 
        e fedeli nel diritto della Chiesa
 
 Nell’ordinamento canonico, in via di principio, il can. 129 del 
        Codex Iuris Canonici del 1983 utilizza il sostantivo «giurisdizione» 
        per qualificare il potere di governo sicut genus, identificando una prerogativa 
        della «sacra potestas», cioè la «potestas regiminis». 
        Tuttavia, il Concilio Vaticano II ha evidenziato, recependo d’altra 
        parte un fenomeno già presente nella prassi ecclesiale, che la 
        valenza del termine «giurisdizione» debba estendersi al di 
        là delle sole espressioni tipiche della potestà di governo 
        in senso proprio, quoad speciem, per indicare il complesso di poteri e 
        facoltà che competono, in maniera globale, all’autorità 
        ecclesiastica per l’espletamento dei propri «munera» 
        nei riguardi dei fedeli affidati alla sua cura pastorale.
 In via preliminare, va precisato che è la «missio canonica» 
        - conferita dall’autorità ecclesiastica competente - che 
        individua, nella realtà spazio-temporale, la giurisdizione: essa 
        delimita lo «status iuridicus» del Pastore, connotando in 
        via prioritaria la natura e l’estensione dei conseguenti poteri 
        del primo ed il contesto dei fedeli su cui questi possono essere esercitati, 
        ossia determinando il concreto «coetus» (gruppo, comunità) 
        nei confronti del quale il Pastore possa attuare la sua potestà. 
        In tal modo, per effetto della specifica «missio», la giurisdizione 
        muta la sua dimensione personale astratta in dimensione personale empirica.
 Va osservato, peraltro, che l’esercizio concreto di tale «potestas 
        iurisdictionis» è attualmente - in via ordinaria - ancorato, 
        nel contesto giuridico-canonico, al criterio territoriale, di modo che 
        la giurisdizione viene considerata come il potere di direzione e vigilanza 
        in capo ad un Pastore nell’ambito di una determinata frazione di 
        territorio sui fedeli affidati alla sua cura spirituale dall’autorità 
        ecclesiastica preposta (si pensi all’ipotesi tipica del potere del 
        Vescovo diocesano sui fedeli della propria diocesi).
 Esistono, tuttavia, alcuni casi straordinari in cui il diritto della Chiesa 
        ammette la possibilità di utilizzare il criterio personale per 
        l’individuazione della giurisdizione: in tal caso i poteri del Pastore 
        sul «coetus» di fedeli a lui affidati possono essere esercitati 
        indipendentemente da qualsiasi limite territoriale, ossia dovunque tali 
        fedeli si trovino nell’orbe cattolico.
 Con le brevi osservazioni che seguono si intende dimostrare che l’utilizzazione 
        del criterio personale per determinare e connotare l’esercizio della 
        giurisdizione ecclesiastica affonda le sue radici, sul piano pratico-operativo, 
        nella tradizione evangelica, e dal punto di vista della speculazione teologico-giuridica, 
        nella dottrina medievale, che ne disciplinò adeguatamente le caratteristiche 
        ed i limiti.
 
 2. Brevi osservazioni sullo sviluppo storico-giuridico dell’elemento 
        territoriale e personale nell’assetto organizzativo della Chiesa
 
 a) La tradizione evangelica, l’epoca feudale e la successiva evoluzione 
        dell’organizzazione ecclesiastica causata dalla prassi di governo
 
 L’impostazione di stampo territoriale della giurisdizione, già 
        riconosciuta dal Codice di Diritto Canonico del 1917, ha, senza dubbio, 
        sotto il profilo storico-giuridico, un’antica origine, tuttavia 
        non si collega direttamente alla divina volontà del Fondatore della 
        Chiesa.
 Come in dottrina si è fatto osservare, infatti «la distribuzione 
        territoriale della Chiesa non fu stabilita da Gesù Cristo; nei 
        primi secoli l’organizzazione ecclesiastica fu prevalentemente personale. 
        Gli Apostoli non avevano dimora fissa e svolgevano la loro opera, nei 
        limiti del possibile, per tutta la terra; tuttavia, aumentando gradualmente 
        il numero dei fedeli, si avvertì subito la necessità di 
        nominare Vescovi nelle città o punti chiave, per irradiare da qui 
        la loro attività apostolica agli altri luoghi della regione. Ciò 
        condusse a costituire, col tempo, quello che noi oggi chiamiamo diocesi».
 Gli Atti degli Apostoli e le Lettere paoline mostrano, infatti, che nei 
        primi secoli dopo Cristo la giurisdizione veniva esercitata nei confronti 
        dei gruppi di fedeli laici su una base personalistica: le Chiese particolari 
        erano intese come comunità di fedeli, originariamente nomadi, legate 
        ad un Pastore; erano niente altro che «portiones Populi Dei», 
        mentre il territorio veniva eventualmente considerato solo uno dei meccanismi 
        per l’individuazione concreta di una determinata Chiesa particolare.
 Tuttavia, quando la struttura della Chiesa cominciò ad essere stabile 
        e si verificò un considerevole aumento dei battezzati, sorse la 
        necessità di organizzare la cura spirituale delle varie comunità 
        di fedeli laici in maniera più rigorosa, motivata dalle concrete 
        esigenze di ciascun luogo. Per realizzare quest’organizzazione, 
        la Chiesa utilizzò le formule proprie della società civile 
        in cui era nata e si era sviluppata: il sistema di divisione territoriale 
        caratteristico dell’Impero Romano.
 Invero, ancora una volta, i limiti territoriali entro i quali la Chiesa 
        andava organizzandosi erano niente altro che fattori di localizzazione 
        delle diverse comunità cristiane. La cosa importante era semplicemente 
        la delimitazione delle comunità, non il fatto che ciò avvenisse 
        mediante un criterio territoriale. Tuttavia, se questa scelta preferenziale 
        per il principio territoriale e, di conseguenza, per l’unità 
        della giurisdizione, da un lato, corrispondeva ad una sorta di mimetismo 
        in rapporto alle strutture amministrative dell’Impero, che va sotto 
        il nome di principio di adattamento, per cui la comunità cristiana 
        si dispensava dal fissarsi da sé i propri confini; dall’altro, 
        era essenzialmente una scelta di opportunità pratico-organizzativa: 
        una scelta per il buon ordine, che sarebbe stato evidentemente minacciato 
        se ogni Vescovo avesse potuto intervenire negli affari delle Chiese vicine.
 Durante l’epoca feudale la potestà di giurisdizione nella 
        Chiesa fu ancora organizzata secondo lo schema del potere civile: questo 
        era considerato come un rapporto personale signore-suddito: il signore 
        godeva, è vero, del «dominium» su un territorio, i 
        cui abitanti erano suoi servi o vassalli, ma, ancora una volta, il limite 
        territoriale non era altro che fattore di localizzazione del «dominium», 
        la cui natura rimaneva fondamentalmente personale, e ciò coerentemente 
        con la natura cosmopolitica ed universalistica della società medievale.
 Col passare del tempo, tuttavia, questa visione andò modificandosi, 
        di modo che le delimitazioni territoriali della giurisdizione ecclesiastica 
        vennero ad essere considerate principalmente come elemento costitutivo 
        delle strutture organizzative, e queste non furono più considerate 
        come comunità delimitate da un territorio, bensì territori 
        nel cui centro era il tempio e ai quali veniva assegnato un ministro sacro 
        ed un popolo. Tale processo raggiunse il culmine con la successiva nozione 
        bellarminiana di Chiesa, concepita innanzitutto come società esterna, 
        in concomitanza con l’affermarsi degli Stati nazionali.
 Ma già prima della Riforma le discordie tra il potere ecclesiastico 
        ed il potere temporale, specialmente a partire dal conflitto di Filippo 
        il Bello di Francia con Bonifacio VIII, mostrarono ai teologi i cambiamenti 
        radicali che stavano avvenendo nella cristianità medievale e provocarono 
        una riflessione sulla Chiesa in lotta contro il potere civile. In questo 
        contesto nacque tutta una letteratura polemica che aveva come nota dominante 
        una preoccupazione fondamentalmente apologetica, superata soltanto di 
        recente nella Chiesa. Le eresie di Wyclif ed Huss, le esagerazioni di 
        precursori del protestantesimo come Ockham, Marsilio da Padova, ecc., 
        violentemente avversate dai teologi cattolici, resero sospetto ogni approfondimento 
        dell’aspetto interiore e carismatico della Chiesa e misero in evidenza 
        la necessità di accentuare il suo aspetto esterno ed istituzionale.
 L’evoluzione successiva, la Riforma, la nascita dei liberi comuni 
        e della borghesia, il sorgere delle monarchie assolute fecero in modo 
        che la configurazione del regime giurisdizionale della Chiesa si delineasse 
        in modo analogo  sebbene non identico  a quella degli Stati 
        assolutistici, ossia fondandosi su parametri spiccatamente territoriali, 
        perché ciò forniva maggiore garanzia di sicurezza dalle 
        aggressioni di altre società politiche, e di certezza normativa 
        nell’amministrazione ecclesiastica. I teologi post-tridentini adottarono 
        ancora un atteggiamento difensivo ed apologetico, che, anche se non dimenticava 
        gli aspetti spirituali, mostrava una chiara preferenza per l’idea 
        di Chiesa come società gerarchica. Famosa, in questo senso, la 
        definizione della Chiesa come una «societas iuridice perfecta» 
        equiparabile allo Stato, rispetto al quale si distingueva per la sua origine, 
        per i suoi fini e mezzi: entrambi erano società esterne, giuridicamente 
        perfette e con un potere di giurisdizione sovrano su di un determinato 
        territorio. Le Chiese particolari, conseguentemente, furono concepite 
        non tanto come comunità di fedeli, bensì come circoscrizioni 
        territoriali amministrative simili agli enti locali dello Stato (province, 
        comuni, ecc.).
 Si verificò, dunque, un processo di «territorializzazione» 
        del diritto che ebbe una enorme influenza sulla Chiesa, inducendo nel 
        tempo ad una sopravvalutazione dell’elemento territoriale nella 
        disciplina della giurisdizione ecclesiastica che avrebbe improntato, in 
        seguito, l’intera disciplina prevista dal Codice del 1917.
 Alla luce di quanto detto, non sembra, quindi, si possa affermare che 
        il territorio sia stato considerato nella tradizione della Chiesa l’ambito 
        della Sua sovranità, o l’oggetto dei Suoi diritti, come, 
        invece, si dice quando, nel diritto costituzionale statale si valuta la 
        natura giuridica del rapporto tra Stato e territorio.
 D’altra parte, il suddetto modo di concepire la giurisdizione ecclesiastica 
        rispondeva adeguatamente alle caratteristiche di una società prevalentemente 
        agricola o artigiana. Oggi, invece, l’utilizzo della giurisdizione 
        costruita su base personale, come si è rilevato in dottrina, diventa 
        sempre più necessario ed efficace ai fini pastorali poiché 
        le circostanze sociali sono notevolmente cambiate: il movimento migratorio 
        aumenta progressivamente, le città crescono a dismisura, la piccola 
        impresa artigianale viene assorbita dai grandi complessi industriali, 
        la facilità di comunicazione annulla le distanze, mentre si accentua 
        la dissociazione tra luogo di domicilio e luogo di lavoro, ecc.
 Il criterio territoriale, dunque, potrà anche presentare, in astratto, 
        tutti i vantaggi possibili, ma pare, in definitiva, che nell’attuale 
        contesto sociale sia concretamente inapplicabile o inefficace come principio 
        esclusivo.
 
 b) La giurisdizione degli Ordini mendicanti durante il Medioevo: la polemica 
        tra religiosi e secolari presso la facoltà di teologia dell’Università 
        di Parigi
 
 Dopo aver esposto, in prospettiva diacronica, le suddette premesse generali 
        - nell’ambito del rapido e sintetico excursus storico delineato 
        -, è opportuno soffermarsi ora su un aspetto particolare del problema, 
        esaminandolo in maniera più approfondita. Come è noto, l’attività 
        degli Ordini mendicanti produsse nella vita della Chiesa un notevole impatto, 
        a partire dal secolo XIII; la storia ecclesiastica e l’ecclesiologia 
        hanno studiato tale fenomeno da numerosi punti di vista, ma in questa 
        sede interessa valutare gli approcci della dottrina circa la dimensione 
        universale della Chiesa e in relazione all’affermazione del primato 
        pontificio, che costituiscono due coordinate cartesiane di notevole importanza 
        ai fini dello studio sulla natura del rapporto di giurisdizione, sviluppate 
        e divulgate da alcuni Maestri di tali Ordini religiosi. In particolare, 
        nell’ambito della cd. polemica bassomedievale, instauratasi presso 
        l’Università di Parigi tra alcuni Dottori del clero secolare 
        (ad esempio Giovanni de Pouilly, Tommaso de Bailly, ecc.) ed i teologi 
        più famosi appartenenti agli Ordini mendicanti (soprattutto S. 
        Tommaso d’Aquino e S. Bonaventura da Bagnoregio, ma anche Giovanni 
        da Parigi), circa il fondamento dei privilegi conferiti dai Romani Pontefici 
        ai religiosi, nonché - in linea generale -, riguardo all’ 
        esercizio dell’apostolato da parte degli stessi.
 In effetti, la discussione coinvolse anche la tematica della natura - 
        territoriale o personale - della giurisdizione, perché lo sviluppo 
        degli Ordini mendicanti e la diffusione della vita religiosa ebbe riflessi 
        evidenti sull’organizzazione dell’attività pastorale 
        e sul governo dei fedeli. L’antico ordine monastico, in effetti, 
        non si basava propriamente su di un’organizzazione centralizzata 
        ed unitaria, bensì piuttosto sull’istituzione di comunità 
        indipendenti l’una dall’altra quanto al governo e all’organizzazione 
        interna, pur senza che ciò costituisse una limitazione dei rapporti 
        di fraternità tra i membri. L’ordine cluniacense costituì 
        sostanzialmente il primo ordine organizzato tramite una certa struttura 
        unitaria, protetta già con l’esenzione pontificia, senza 
        tuttavia arrivare a possedere le caratteristiche delle nuove comunità 
        religiose del XIII secolo. Fino ad allora, infatti, la vita dei monaci 
        (cistercensi, camaldolesi, ecc.) si connotava per la stabilità 
        territoriale delle relative famiglie, in quanto la loro vita si svolgeva 
        nell’ambito dei singoli monasteri, di regime autonomo. Di fronte 
        a tali prerogative di autonomia, localizzazione e stabilità, i 
        nuovi ordini del XIII secolo presentarono una struttura di governo gerarchica 
        o piramidale; a capo di tali comunità vi era un Superiore generale 
        («Minister» o «Magister generalis»), coadiuvato 
        nel suo incarico dal Capitolo generale con funzioni normative, al quale 
        afferivano i Superiori provinciali delle diverse regioni. L’esercizio 
        dell’apostolato dei religiosi, dunque, non fu più vincolato 
        stabilmente ad un luogo (dato che il religioso veniva incorporato nell’Ordine, 
        non ad un determinato monastero) e si estese rapidamente alle diverse 
        diocesi e parrocchie. Questa mobilità e universalità apostolica, 
        peraltro, fu stimolata dai Romani Pontefici, che utilizzarono i frati 
        per la lotta contro gli eretici o come strumento per superare completamente 
        il particolarismo feudale, conferendo loro numerosi privilegi o esenzioni. 
        Le autorizzazioni pontificie permisero ai religiosi (domenicani e francescani 
        in particolare) di dedicarsi in maniera indipendente alle attività 
        organizzative interne, ma anche alle opere di apostolato e alle funzioni 
        pastorali in senso stretto, inerenti al ministero ordinato (predicazione, 
        celebrazione eucaristica, amministrazione del sacramento della penitenza, 
        ecc.), che li posero a stretto contatto con il popolo proprio dei fedeli 
        di diocesi e parrocchie.
 Nacque, quindi, il problema delle necessarie relazioni tra religiosi, 
        da un lato, e Vescovi e parroci, dall’altro, e l’esigenza 
        di coordinare le rispettive potestà. Alla questione dell’apostolato 
        e della cura pastorale universale dei religiosi, si associò la 
        connessa problematica economica, in quanto la retribuzione del clero diocesano 
        si basava su un sistema di tributi e offerte dei fedeli che si vedeva 
        minacciato per l’accentuazione dell’ideale di povertà 
        evangelica propria dei religiosi ed il riconoscimento del loro diritto 
        a mendicare, che spesso incontravano il favore del popolo.
 La suddetta polemica assunse toni in alcuni casi molto accesi, tanto da 
        richiedere in più occasioni l’intervento normativo dei vari 
        Pontefici. Tuttavia, si trattò di una mediazione assai difficile, 
        infatti i maestri secolari e i Vescovi non intendevano affatto rinunciare 
        all’idea di un pastore titolare e di un popolo sottomesso stabilmente 
        all’autorità dello stesso, territorialmente delimitata, mentre 
        i mendicanti si proponevano di attuare un apostolato libero, ossia non 
        vincolato ad alcun luogo; conseguentemente, la diatriba coinvolse anche 
        la questione della natura del rapporto di giurisdizione, ossia la relazione 
        territorialità/personalità, che - essendo espressione della 
        perenne tensione tra particolare ed universale - si incentrò, nello 
        specifico, sul dibattito tra la tesi secolare relativa al principio dell’unità 
        della giurisdizione nella Chiesa particolare e della potestà immediata 
        del Vescovo diocesano sul proprio territorio e la teoria dei mendicanti 
        sulla dinamicità del primato universale, consistente in una potestà 
        immediata del Papa sui fedeli di qualunque diocesi. La subordinazione 
        dei frati esclusivamente al Pontefice ed alle autorità interne 
        ai medesimi ordini religiosi, il loro inserimento nella pastorale organizzata 
        sul territorio diocesano e parrocchiale - attuata fianco a fianco con 
        i chierici secolari e nei confronti dei fedeli appartenenti a diocesi 
        e parrocchie - resero indispensabile un chiarimento circa i poteri dei 
        Vescovi diocesani sui religiosi, dinanzi al principio dell’esenzione 
        canonica ed alla protezione pontificia dei mendicanti.
 Invero, i maestri secolari arrivarono a difendere in maniera decisa l’organizzazione 
        locale della Chiesa come riconosciuta direttamente da Cristo: i Vescovi 
        venivano visti come i successori degli Apostoli a capo delle Chiese locali, 
        secondo la peculiare tradizione apostolica dell’episcopato monarchico. 
        Tuttavia, giunti alla classificazione dei gradi della gerarchia episcopale 
        di giurisdizione (i Vescovi sulle diocesi, i Metropoliti sulle province, 
        il Romano Pontefice sull’unità universale), elaborarono l’ulteriore 
        tesi dell’istituzione divina dell’ufficio parrocchiale. Secondo 
        tale approccio dottrinario, i parroci erano considerati come i successori 
        dei settantadue discepoli di cui tratta il Nuovo Testamento (cf. Lc 10,1) 
        e non come una semplice creazione storica. In definitiva, accanto all’esistenza, 
        per diritto divino, dei tre gradi del sacramento dell’ordine (Vescovi, 
        presbiteri e diaconi), i parroci avrebbero costituito accanto al Papa 
        ed ai Vescovi un terzo grado della gerarchia di giurisdizione. Tale teoria, 
        sostenuta da Giovanni de Pouilly e da Guglielmo di Saint-Amour, fu contestata 
        da S. Tommaso d’Aquino, specialmente nel «Contra impugnantes 
        Dei cultum et religionem», del 1256. Viceversa, sempre secondo il 
        descritto orientamento dottrinario, i mendicanti non presentavano alcun 
        fondamento di diritto divino, per cui nella cura delle anime dovevano 
        rispettare l’autorità di vescovi e parroci, astenendosi, 
        altresì, dal violare - tramite la mendicità - il sistema 
        economico di sostentamento del clero diocesano.
 Senza dubbio, in tale ottica, il Papa, i Vescovi ed i parroci avevano 
        il potere di conferire la «missio canonica» ad altri ministri, 
        ma solo come propri collaboratori ausiliari ed esclusivamente «ad 
        actum», ossia senza un carattere generale e permanente, come viceversa 
        avrebbero preteso i religiosi; infatti in quest’ultimo caso più 
        che collaboratori avrebbero assunto la veste di apostoli universali e 
        girovaghi, svincolati dalla subordinazione e dal controllo dei pastori 
        locali.
 In questo contesto, l’ordine gerarchico fondato sui dodici apostoli 
        ed i settantadue discepoli e sui loro rispettivi successori, giuridicamente 
        articolato in diocesi e parrocchie, era ritenuto sacro ed immutabile. 
        Tale ordine non avrebbe, perciò, potuto essere modificato con incarichi 
        o poteri conferiti ad estranei, nemmeno da parte del Romano Pontefice, 
        perché il potere pastorale derivava direttamente da Gesù 
        Cristo. La giurisdizione, secondo tale punto di vista, era perciò 
        rigidamente concepita come l’autorità di un pastore su di 
        un determinato spazio geografico assegnatogli, ed implicava l’immagine 
        della Chiesa concepita in chiave territoriale: un’unione strutturata 
        di microterritori locali, provinciali e nazionali, fino a costituire l’intero 
        territorio dell’orbe, ossia la Chiesa universale, nella quale la 
        potestà del Papa era qualificabile più come un semplice 
        diritto di stimolo e di coordinamento dell’unità, che un 
        vero potere decisionale e di vigilanza.
 Un’altra immagine che venne richiamata per giustificare la subordinazione 
        dei mendicanti ai chierici secolari, fu quella della metafora dell’unione 
        matrimoniale, posta a fondamento del principio dell’unicità 
        del pastore all’interno di ciascuna Chiesa locale. In breve, si 
        affermò la regola secondo cui il capo di ogni Chiesa dovesse essere 
        necessariamente uno solo, come esclusiva fu l’unione nuziale tra 
        Cristo e la Chiesa; altrimenti la Chiesa non sarebbe stata sposa, bensì 
        prostituta. Nello stesso tempo, si ricorse all’immagine della metafora 
        del mostro a più teste per descrivere la medesima deprecabile ipotesi 
        della presenza di più pastori in uno stesso luogo. Come è 
        facile comprendere, entrambe le metafore medievali del matrimonio tra 
        il Vescovo (o il parroco) con la propria Chiesa o del mostro pluricefalo 
        non ebbero una valenza teologica autentica, ma furono indice e frutto 
        esclusivamente di controversie pratiche inerenti all’organizzazione 
        ecclesiastica ed all’esercizio concreto del potere di governo.
 
 c) Le argomentazioni teologico-giuridiche formulate dai maestri mendicanti: 
        il principio del primato giurisdizionale del Sommo Pontefice e la natura 
        diaconale e collegiale della potestà di governo
 
 I teologi mendicanti replicarono mediante elaborazioni teoriche assai 
        originali per confutare le citate tesi; S. Tommaso d’Aquino, in 
        particolare, affermò che solo il Sommo Pontefice ed i Vescovi avessero 
        ricevuto direttamente da Cristo il mandato a realizzare la cura spirituale 
        delle anime, non i parroci: il potere di questi ultimi non era originario, 
        ma esclusivamente derivato da quello episcopale, in cui aveva il suo fondamento. 
        A maggior ragione, il Papa - titolare di una potestà immediata 
        e sovrana in tutto l’orbe cattolico - aveva facoltà di assegnare 
        la «missio canonica» a chiunque, senza essere limitato dal 
        dovere di rispetto verso istanze intermedie. S. Bonaventura da Bagnoregio 
        e Tommaso di York costruirono teorie analoghe, pur insistendo particolarmente 
        sulla «missio canonica» pontificia, a differenza di S. Tommaso 
        che mise in rilievo la potestà dei Vescovi, in generale, a conferire 
        detta missione. Su tali linee di pensiero si sarebbe inserito nei tempi 
        a venire un indirizzo dottrinario diffuso che avrebbe visto nel Papa - 
        Successore di Pietro - l’espressione massima del principio di personalità 
        poiché il Pontefice era titolare di una potestà giurisdizionale 
        immediata di natura personale sui fedeli di qualunque Chiesa particolare 
        in qualunque luogo essi si trovassero (esercitata, certo, pur sempre su 
        base territoriale, ossia «in territorio universi orbis», ma 
        a prescindere da qualunque limite territoriale specifico).
 S. Tommaso, in particolare, fece leva su due principi fondamentali nell’esporre 
        le menzionate argomentazioni: 1) il principio del collegamento costitutivo 
        tra «missio canonica» e potestà episcopale, per cui 
        non solo il Papa, ma anche i Vescovi diocesani potevano conferire detta 
        missione; 2) il principio della natura immediata della potestà 
        del Papa sui fedeli di tutta la Chiesa, così come della potestà 
        di ciascun Vescovo sui fedeli della propria diocesi.
 Egli sviluppava, peraltro, tali principi affermando che la teoria dei 
        secolari, la quale faceva derivare la giurisdizione ordinaria - stabile 
        e permanente - dai dodici Apostoli e dai settantadue discepoli, era parzialmente 
        corretta, poiché l’incarico affidato a quelli da Cristo era 
        suscettibile di svilupparsi nel tempo - mano a mano che la Chiesa si diffondeva 
        - diventando necessaria la sua estensione ad ulteriori collaboratori. 
        Tuttavia, la missione pastorale che potevano ricevere su tale base i religiosi 
        - come nuovi collaboratori - non li rendeva, come i secolari viceversa 
        asserivano, pastori universali, ossia senza legame alcuno con il territorio, 
        perché la potestà che veniva loro conferita con la «missio» 
        non era di natura ordinaria, bensì delegata, per cui essi dipendevano, 
        di volta in volta, nell’esercizio della loro attività di 
        cura delle anime, dal pastore posto a capo del territorio in cui tale 
        cura veniva prestata. Di conseguenza, la potestà dei mendicanti 
        ad esercitare il ministero sacro tra i fedeli di qualunque diocesi aveva 
        il suo fondamento ed il suo limite nella «missio canonica», 
        ricevuta dal Papa o dai Vescovi diocesani, che rendeva legittima tale 
        potestà.
 S. Tommaso ripropose anche la metafora del matrimonio spirituale tra Cristo 
        e la Chiesa nella sua dimensione particolare (cioè, dunque, tra 
        il Vescovo, o il parroco, e le rispettive chiese), reinterpretandola in 
        chiave non esclusivista bensì nell’ambito di una visione 
        collaborativa, o collegiale, tra i diversi incarichi pastorali assegnati: 
        il Papa, i Vescovi ed i parroci erano tutti ministri e servi dello sposo 
        della Chiesa - Gesù Cristo - ed operavano tutti insieme, quand’anche 
        in attività differenti, per lo stesso obiettivo, ossia la salvezza 
        delle anime. S. Tommaso osservò, in tale direzione, che non solo 
        il parroco fosse, dunque, «sacerdos proprius», ma che lo erano 
        anche e soprattutto il Papa ed i Vescovi nei loro rispettivi ambiti (universale 
        e particolare); egli asserì, nello specifico, che l’aggettivo 
        «proprius» si riferisse concretamente alla suddivisione del 
        territorio, ma, nel caso del parroco, non implicasse - in senso teologico 
        - alcuna legittimazione esclusiva all’esercizio del ministero sacro 
        nello spazio di propria competenza, giacchè i religiosi potevano 
        confessare, predicare e svolgere altri atti del culto divino «ex 
        commissione praelatorum». Emergevano in modo già abbastanza 
        nitido, dunque, i principi che sarebbero stati ribaditi e consacrati formalmente 
        ed esplicitamente nell’ultimo Concilio, ossia il concetto della 
        potestà di giurisdizione ecclesiastica intesa come servizio (diaconìa) 
        per il bene delle anime, e la natura collegiale e non esclusivista della 
        stessa.
 
 3. Conseguenze: l’applicazione del criterio personale per l’individuazione 
        della potestà di giurisdizione ecclesiastica fondata, sotto il 
        profilo teorico-scientifico, sulla dottrina teologico-giuridica medievale
 
 Alla luce delle considerazioni che precedono, appare chiaro che l’utilizzo 
        del principio personale per la delimitazione della giurisdizione ecclesiastica 
        si collega alla tradizione teologica e giuridica medievale, e all’acceso 
        dibattito instauratosi tra Ordini mendicanti e chierici secolari presso 
        la facoltà di teologia dell’Università di Parigi nel 
        XIII secolo.
 Il concorso di più giurisdizioni nello stesso territorio (territoriale, 
        quella dei parroci; personale, quella dei religiosi) si evidenziava, in 
        tale contesto, come un fenomeno non solo teologicamente lecito, ma anche 
        concretamente utile per il bene delle anime. Una volta individuato il 
        carattere immediato della potestà pontificia sui fedeli di tutto 
        l’Orbe cattolico e della potestà episcopale nel territorio 
        diocesano e parrocchiale come di origine divina, l’Aquinate precisava 
        anche cosa dovesse intendersi per concorso di giurisdizioni teologicamente 
        lecito nel medesimo territorio: visto che non solo il parroco o il Vescovo 
        erano pastori propri dei loro fedeli, ma anche il Papa, che poteva certamente 
        trasmettere ad altri certi ambiti o aspetti della propria funzione pastorale, 
        ne derivava che i religiosi potevano lecitamente esercitare la cura delle 
        anime degli stessi fedeli diocesani e parrocchiali, ma non per questo 
        poteva dirsi che esistessero vari sposi di una stessa Chiesa. Ciò, 
        viceversa, sarebbe capitato qualora si fossero trovati a capo della stessa 
        Chiesa, nello stesso grado, in senso quantitativo e qualitativo (con pari 
        funzioni, poteri e competenze, in senso teologico e giuridico) più 
        pastori, come ad esempio due Vescovi in una diocesi o due parroci in una 
        parrocchia. D’altra parte, egli fece notare, a tale proposito, che 
        la potestà ecclesiastica - quella episcopale in particolare - non 
        poteva essere concepita, in linea generale, come una sorta di «dominium», 
        ossia - in analogia con la potestà temporale - come un potere assoluto 
        su una determinata frazione di territorio geografico; si trattava bensì 
        di un servizio che andava prestato in collaborazione con altri pastori 
        - per un suo più proficuo esercizio - e che poteva trasmettersi 
        anche ad altri collaboratori, senza però che per questo il titolare 
        della potestà ne perdesse la soggettività originaria e responsabilità 
        finale. In tale contesto, la natura della potestà di giurisdizione 
        si evidenziava chiaramente come personalistica: tale potestà null’altro 
        era se non un rapporto tra due persone, fonte di reciproci diritti e doveri. 
        Ciò si desumeva, in particolare, esaminando la potestà universale 
        del Papa, che era da considerarsi la potestà di giurisdizione per 
        eccellenza. Il territorio non rappresentava, dunque, un elemento essenziale 
        e costitutivo della giurisdizione, ma costituiva solo uno dei meccanismi 
        concreti tramite i quali veniva disciplinato l’esercizio di tale 
        potestà nell’ambito organizzativo della Chiesa.
 In quest’ottica, S. Tommaso giungeva così a confutare la 
        teoria secondo cui i parroci avrebbero costituito uno stato presbiterale 
        più perfetto di quello rispettivo dei religiosi, in quanto avrebbero 
        governato il proprio territorio parrocchiale - sebbene in un ambito spaziale 
        più ristretto rispetto a quello diocesano - con un potere di pari 
        natura rispetto a quello episcopale. S Tommaso, infatti, affermava la 
        capitalità e centralità dell’ufficio episcopale e 
        la natura dei presbiteri come semplici cooperatori del Vescovo, da lui 
        dipendenti nell’esercizio dei loro poteri, giacchè privi 
        di una potestà di giurisdizione autonoma. S. Tommaso motivava tale 
        conclusione facendo osservare che i settantadue discepoli, ai quali Cristo 
        aveva affidato la corresponsabilità nella «missio» 
        canonica, erano stati chiamati come semplici collaboratori dei dodici 
        Apostoli, quindi subordinati a questi ultimi nell’espletamento del 
        proprio incarico. In tal modo, in luogo di un ordine territoriale verticale, 
        proponeva la fondatezza teologico-giuridica di un ordine territoriale 
        orizzontale.
 Tali acute considerazioni si sarebbero dimostrate di utilità capitale 
        nell’ambito della disciplina teologica e giuridica delle circoscrizioni 
        ecclesiastiche personali, antiche e moderne, che nei secoli successivi 
        la legislazione canonica e la prassi di governo avrebbero contribuito 
        a disegnare, con peculiare varietà ed originalità sia di 
        forme che di caratteristiche.
 
 4. Rilievi conclusivi
 
 Si è dimostrato, dunque, nelle pagine che precedono, che l’impostazione 
        di stampo territoriale della giurisdizione, già riconosciuta dal 
        Codice di Diritto Canonico del 1917, ha, senza dubbio, sotto il profilo 
        storico-giuridico, un’antica origine, tuttavia non si collega direttamente 
        alla divina volontà del Fondatore della Chiesa.
 Si è, infatti, evidenziato che nei primi secoli l’organizzazione 
        ecclesiastica fu prevalentemente personale. Gli Apostoli non avevano dimora 
        fissa e svolgevano la loro opera, nei limiti del possibile, per tutta 
        la terra; tuttavia, aumentando gradualmente il numero dei fedeli, si avvertì 
        subito la necessità di nominare Vescovi nelle città o punti 
        chiave, per irradiare da qui la loro attività apostolica agli altri 
        luoghi della regione; in questo modo, per esigenze pratico-organizzative, 
        vennero istituite strutture amministrative di natura territoriale, in 
        primo luogo le diocesi. Si verificò, dunque, gradualmente, un fenomeno 
        di assorbimento o di imitazione dei limiti territoriali civili, grazie 
        alla sovrapposizione delle strutture organizzative ecclesiali a quelle 
        proprie dell’Impero Romano. Tuttavia, i limiti territoriali entro 
        i quali la Chiesa andava organizzandosi erano niente altro che specifici 
        fattori di localizzazione - tra i vari possibili - delle diverse comunità 
        cristiane.
 Durante l’epoca feudale la potestà di giurisdizione nella 
        Chiesa fu ancora organizzata secondo lo schema del potere civile: questo 
        era considerato come un rapporto personale signore-suddito: il signore 
        godeva, è vero, del «dominium» su un territorio, i 
        cui abitanti erano suoi servi o vassalli, ma, ancora una volta, il limite 
        territoriale non era altro che fattore di localizzazione del «dominium», 
        la cui natura rimaneva fondamentalmente personale, e ciò coerentemente 
        con la natura cosmopolitica ed universalistica della società medievale.
 Si è poi analizzata la rilevanza che assunse la polemica sull’origine 
        e la natura della potestà di giurisdizione sorta tra Ordini mendicanti 
        e clero secolare presso l’Università di Parigi, nel XII secolo; 
        la diatriba si incentrò, si è detto, sul dibattito tra la 
        tesi secolare relativa al principio dell’unità della giurisdizione 
        nella Chiesa particolare e della potestà immediata del Vescovo 
        diocesano sul proprio territorio e la teoria dei mendicanti sulla dinamicità 
        del primato universale, consistente in una potestà immediata del 
        Papa sui fedeli di qualunque diocesi.
 S. Tommaso d’Aquino, tra gli altri, fece notare, in proposito, che 
        la potestà ecclesiastica - quella episcopale in particolare - non 
        poteva essere concepita, in linea generale, come una sorta di «dominium», 
        ossia - in analogia con la potestà temporale - come un potere assoluto 
        su una determinata frazione di territorio geografico; si trattava bensì 
        di un servizio che andava prestato in collaborazione con altri pastori 
        - per un suo più proficuo esercizio - e che poteva trasmettersi 
        anche ad altri collaboratori, senza però che per questo il titolare 
        della potestà ne perdesse la soggettività originaria e responsabilità 
        finale.
 Si trattava di intuizioni di grossa rilevanza, in virtù delle quali 
        la natura della potestà di giurisdizione si evidenziava chiaramente 
        come personalistica: tale potestà null’altro era se non un 
        rapporto tra due persone, fonte di reciproci diritti e doveri. Ciò 
        si desumeva, in particolare, esaminando la potestà universale del 
        Papa, che era da considerarsi la potestà di giurisdizione per eccellenza. 
        Il territorio non rappresentava, dunque, un elemento essenziale e costitutivo 
        della giurisdizione, ma costituiva solo uno dei meccanismi concreti tramite 
        i quali veniva disciplinato l’esercizio di tale potestà nell’ambito 
        organizzativo della Chiesa.
 
 Ciro Tammaro
 
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