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Cono A. Mangieri, Gentucca ... figlia spuria di Dante?

5. Poiché l'autenticità di questa serie sonettistica serve da appoggio, anzi, da base al mio ragionamento circa l'adolescenza edonistica di Dante, mi sembra opportuno esternare qui il mio punto di partenza: la Tenzone va considerata un documento autobiografico convalidante i peccati di eccessiva prodigalità e di eccessiva golosità commessi nell'adolescenza da Dante e da Forese, i quali pertanto diventano le reciproche 'controfigure parziali' e in base a ciò si incontrano nel Purgatorio. Io non condivido l'opinione di quei critici che, non sopportando l'idea che il Divino Poeta abbia commesso peccati edonistici (sia pure solo nell'adolescenza), hanno voluto intendere e far intendere la Tenzone come un tentativo giovanile di scrivere o imitare poesia di infimo livello popolare. [1] Vado ancor meno d'accordo con chi nega la fattura dantesco-donatiana e vi scorge elementi atti a farne collocare la composizione in altra epoca storico-letteraria. Questo angiporto antiattribuzionistico parte dai vaghi sospetti esternati nell'Ottocento da Pietro Fraticelli e riconsiderati più tardi da Domenico Guerri, [2] a cui ancora più tardi nuove considerazioni aggiunse Antonio Lanza, [3] assecondato recentemente da Mauro Cursietti. [4] Quest'ultimo critico, intravisto nel linguaggio dei sei sonetti un significato estremamente scurrile, rifiuta l'attribuzione dantesco-donatiana dei sonetti e pensa di averne rintracciato il vero autore: costui sarebbe Stefano Finiguerri detto Il Za, rimatore burlesco fiorentino operante tra la fine del Trecento e il principio del Quattrocento, il quale avrebbe finto una tenzone tra due sodomiti scrivendo sia le 'bòtte' sia le 'risposte' in un linguaggio anfibolo peculiare alla poetica di quell'epoca. [5] In diverse pubblicazioni, la disputa intorno alla presunta falsità della Tenzone ha visto finora interventi di parecchi studiosi, tra i quali menziono Domenico De Robertis (dissenziente), Enzo Esposito, Daniele Simoncini, Antonio Lanza, Ruggero Stefanini (tutti consenzienti) e Cursietti medesimo.

A tal riguardo, io devo dire che le argomentazioni addotte dagli antiattribuzionisti non persuadono nella misura richiesta dalla gravezza del loro assunto, il quale in essenza si basa sulla tesi che il terzo sonetto, segnatamente il verso «tal che starai più presso a San Simone», alluda al carcere delle Stinche entrato in funzione nel 1304. Il Cursietti annota giustamente che, a tale data, «Forese Donati era morto da otto anni e non poteva né ricevere né rispondere a un sonetto in cui si menzionassero le Stinche. Il problema dell'attribuzione dantesca e donatiana è tutto qui». [6] Io vorrei tuttavia obiettare che né il tenore metaforico né il lessico suggeriscono perentoriamente che il terzo sonetto abbia visto la luce dopo il 1304. Al contrario, l'uno e l'altro fattore possono ben più giustificatamente suggerire il 1284, quando Dante, libero dal freno paterno e dai doveri scolastici, ha preso a frequentare compagnie evidentemente invise a Forese, il quale, come cugino di Gemma già promessa sposa di Dante, deve aver sentito anche un po' il dovere di rimproverare al futuro parente l'eccessiva scialacquoneria richiesta dal «Belluzzo». In secondo luogo, l'allusione a un carcere di tale quartiere (come intendeva Michele Barbi), [7] non esige affatto che tale carcere sia quello delle Stinche.

Stando alla mia interpretazione (e riproduzione grafica) dei primi sei versi del sonetto:


Ben ti faranno il nodo Salamone,

Bicci novel, e' petti de le starne;

ma peggio fia la lonza del castrone,

ché 'l cuoi' farà vendetta de la carne

tal che starai più presso a San Simone,

se tu non ti procacci de l'andarne,


mi sembra lecito opinare che i primi due alludano a una punizione corporale; gli altri quattro possono invece riferirsi a «San Simone», sia come quartiere di carceri sia come quartiere di poveracci. Infatti San Simone si trovava in periferia, e, come tutti i quartieri periferici medioevali (anzi, finanche odierni), era popolato dai più bisognosi della città. Ciò spiega perché il Reggimento di Firenze (ma ciò si verificava pure in altre città), desiderando tenere i delinquenti lontano dai cittadini benestanti che abitavano nei quartieri del centro, disponesse di prammatica che i luoghi di detenzione fossero situati nei quartieri di periferia. Per risparmiare denaro, si utilizzavano costruzioni pubbliche preesistenti, di cui generalmente si adibivano i locali superiori ad ufficio e quelli sotterranei a prigione; e siccome questi ultimi erano stretti, oscuri e puzzolenti come budella, nella Toscana duecentesca nacque per rotacismo la definizione 'burella', che poi per metaplasmo analogico divenne singolare. [8] Crescendo il numero dei delinquenti, il Comune fu costretto a prendere in affitto finanche costruzioni private, sicché, col passar del tempo, nel quartiere di San Simone finì col trovarsi più di una 'burella'. Fu soltanto dopo l'incendio che distrusse la burella della Bellanda (1290), che si decise di costruire una grande prigione, entrata in funzione nel 1304 e chiamata popolarmente 'Le Stinche', dal nome - pare - di un castello da cui provennero i primissimi inquilini.

Prendendo ciò in considerazione appare palese che Dante, nei succitati versi, non faccia altro che rinfacciare a Forese la sua golosità, avvertendolo ironicamente che la sua predilezione per i petti di starna (uccello dalle carni prelibate, che i nullatenenti fiorentini potevano catturare solo cacciando di frodo, nei boschi magnatizi o comunali, aiutandosi con quel ... «panìco» menzionato nel sesto sonetto) finirà col procuragli un «nodo Salamone». Con questa espressione si allude, secondo me, a una punizione corporale inflitta senza forma di processo legale, ossia alla bastonatura che i guardacaccia del Medioevo (e finanche di tempi più recenti) usavano infliggere ai bracconieri colti in flagrante. Il «nodo Salamone», dunque, sarebbe una metafora per indicare un nodo giudiziario sciolto alla svelta, come in un processo sommario. Così intendendo, si profila anche una nuova probabilità ermeneutica inerente al «nodo [...] di Salamon o d'altro saggio» che, nel secondo sonetto, lega tuttora il padre di Dante «tra le fosse»: vale a dire la probabilità che Forese alluda ad una bastonatura di Alighiero, la quale avrebbe avuto conseguenze preterintenzionalmente letali.

Come io vedo vagamente suggerito nel sesto sonetto, infatti, il padre di Dante, che era cambiatore di professione, avrebbe dato in cambio degli aquilini probabilmente falsati («l'aguglin» del v. 4 è plurale apocopato), e per punizione avrebbe ricevuto dai clienti frodati la bastonatura rivelatasi micidiale. E' noto che nel Medioevo ai fabbricatori ed agli spacciatori di monete false si comminasse giuridicamente la pena di morte (onde si legga pure If. XXX): io opino che, nel caso di Alighiero, non sia stata esposta denuncia ufficiale presso l'autorità giudiziaria, molto probabilmente perché i frodati sono stati conoscenti della famiglia; e mi viene da pensare a quei Sacchetti, uno dei quali avrebbe poi ammazzato anche Geri del Bello, cugino di Dante. [9] Forese rinfaccia ora a Dante non solo l'azione fraudolenta del padre, ma pure il fatto che egli, invece di vendicarne la fatale bastonatura ricevuta recentemente («l'altr'ieri», v. 4, sarebbe iperbole ironica), si è rappacificato coi bastonatori ed ha introdotto così una nuova usanza nella tradizione fiorentina: quella di diventare amico di chi ti bastona. E qui va notato ulteriormente che, se Dante viene accusato di non aver ancora vendicato il padre, vuol dire che non deve essersi trattato di una pena comminata dalla Giustizia, bensì di una bastonatura avvenuta privatamente con processo sommario (in termini più moderni, il «nodo Salamone» si direbbe 'linciaggio'), dando così adito alla vendetta familiare, che di quei tempi era ancora un diritto legale.

Ricercando l'origine dell'espressione metaforica «nodo (di) Salomone», io sono giunto alla conclusione che essa debba essere nata nell'ambito della gioventù goliardica fiorentina per associazione d'idee relative sia al nodo di Gordio, sciolto da Alessandro Magno con un veloce colpo di spada, sia al racconto veterotestamentario di Terzo Re III 16 sgg., dove Salomone minaccia di risolvere pure con un veloce colpo di spada la lite fra le due madri che si contendono un bambino: Forese e Dante avrebbero dunque fuso in una sola espressione quei due famosi esempi di procedura sommaria. In ogni modo, Dante continua affermando che un danno peggiore di quello causato dai petti di starna riceverà Forese dalla lombata di agnello castrato (che egli, ovviamente, usa procurarsi pure di frodo), in quanto «il cuoio», ossia il vello che Forese poi utilizzerà per miseria economica, lo tradirà pubblicamente come ladro, vendicando così la carne golosamente divorata e portandolo ancor più vicino al quartiere di San Simone, a meno che egli non «si procacci» di evitare l'andata (si noti il verbo dantesco, che sembra riconnettersi alla 'caccia di frodo' or ora velatamente denunciata). [10] 

Per comprendere appieno la punzecchiatura presente nell'espressione «più presso a San Simone» bisogna sapere che, qualche tempo prima del 1284, la famiglia Donati del ramo di Forese (e di Corso) si era trasferita dal quartiere centrale di San Martino del Vescovo (dove abitava anche Dante) al quartiere di San Pier Maggiore, il quale confinava col quartiere periferico di San Simone popolato da poveracci e detenuti. Dunque per Forese, che aveva già effettuato un trasloco in direzione della periferia, portarsi ancor più vicino al quartiere di San Simone (o alla chiesa di San Simone, se si preferisce) significava andarci addirittura ad abitare, vuoi come detenuto vuoi come poveraccio. Da qui la pepata risposta donatiana del quarto sonetto; anzi, la punzecchiatura dantesca raccoglie rancore finanche nel sesto ed ultimo sonetto, dove Forese, confessando a Dante di saper dire i nomi delle persone che «v'hanno posto su», ossia hanno scommesso sulla terribile vendetta che Dante farà del padre, gli chiede ironicamente di portargli del «panìco» per «metter la ragione», cioè per poterli enumerare tutti senza rischiare di perdere il conteggio ('por su' era linguaggio tecnico nel gioco d'azzardo, specialmente quello coi dadi, sottintendendo la 'posta' da porre sul tavolo per essere accettato a scommettere). [11] Pertanto a me risulta logico e palmare che tutto questo contenuto metaforico-lessicale non esiga od implichi una composizione posteriore al 1304 per il terzo sonetto e per gli altri, dunque neppure che il carcere in questione sia quello delle Stinche: prima che questo fosse costruito, infatti, nel quartiere di San Simone esisteva già un certo numero di 'burelle' che, assieme con la povertà del 'popolo', potevano servire da riferimento alla duplice allusione dantesca.

Peraltro, stando a quanto già si sapeva sull'amicizia del giovane Dante con Brunetto Latini (If. XV) e con Forese Donati (Pg. XXIII), io non considero attendibile che Il Za o chi altro abbia potuto scegliere Dante e Forese come protagonisti sodomitici della Tenzone, anziché Dante e ser Brunetto, il quale ultimo era stato noto non solo come rimatore volgare (dunque preferibile quale tenzonatore poetico), ma anche come sodomita già nei versi di Dante (e tra le righe di Giovanni Villani), mentre invece di Forese non si afferma qualcosa di simile in nessun documento anteriore al Quattrocento... a meno che non lo si deduca grazie ad una gratuita interpretazione triviale della Tenzone stessa. Lo stesso si può dire circa l'amicizia del giovane Dante con Guido Cavalcanti, il quale nella Vita Nuova viene detto «primo amico» ed è stato noto come epicureo, sicché pure lui sarebbe potuto comparire nella Tenzone a maggior diritto che non Forese. L'incongruenza di un tal modo d'agire sussiste anche pensando ad un 'falso' creato apposta per giocare un tiro mancino al notaio fiorentino Antonio Salutati, [12] possessore del Codice Chigiano L VIII 305, figlio di quel grande umanista Coluccio Salutati che fu discepolo del Petrarca e similmente scopritore di importanti testi letterari. Dò queste notizie per suggerire che non sarebbe irragionevole opinare che il Codice sia stato già di Coluccio e poi sia passato al figlio Antonio, il quale vi ha aggiunto nuovi componimenti e la sottoscrizione «Hic liber est Antonii domini Colucii de Salutatis»: nel Medioevo, specie in casa di umanisti, queste collezioni venivano considerate patrimonio familiare e perciò spesso passavano da padre a figlio.

Parlando francamente, non vedo neanche la necessità per cui si dovrebbe ricostruire il terzo endecasillabo del secondo sonetto, ipometro nel Chigiano L VIII 305 («ma incontanente di fui mosso»), nella maniera proposta da Cursietti: [13] «ma incontanente di [Chiasso] fui mosso» («Chiasso» = malfamato quartiere fiorentino), anziché in una maniera più lineare, per esempio così: «ma incontanente di [casa] fui mosso». Ancora migliore sarebbe un'integrazione come questa: «ma incontanente [che s'o]dì, fui mosso», la quale darebbe il significato "non appena che si udì (= la tosse), mi mossi" («fui mosso» sarebbe costrutto del tipo 'fui andato', 'fui nato', ecc ; onde vedasi pure If. II 141). Così integrando, io mi appoggio alla lezione presente nella Raccolta Bartoliniana, «ma incontanente che fo dì fui mosso», perché credo nella probabilità che quest'ultimo menante abbia preso la S di «sodi» per una f, data la somiglianza dei due grafemi nella scrittura minuscola notarile fiorentina. [14] 

Quanto alla presunta 'unicità' rappresentata dalla lingua e dal contenuto della Tenzone in seno alla produzione poetica dell'ultimo Duecento-primo Trecento (presunta in quanto Dante da Maiano, Cecco Angiolieri e certe rime dei Memoriali Bolognesi sono già un po' su questa strada), [15] addurre ciò come prova che essa non possa essere di quell'epoca, ma ben dell'epoca burchiellesca, non mi pare logico: infatti anche il Cantico di Frate Sole rappresenta linguisticamente e contenutisticamente un unicum per il primo Duecento; e il contrasto Rosa fresca aulentissima per la metà del Duecento; la Divina Commedia per il principio del Trecento; e via dicendo. A parte ciò, mi sembra pure molto contraddittorio il fatto che i critici antiattribuzionisti prima reputino il creatore della Tenzone abbastanza scaltro per simulare un prodotto dell'ultimo Duecento capace di prendere per il naso il letterato tre-quattrocentesco Antonio Salutati e quasi tutti i critici-filologi posteriori, [16] successivamente affermano che i sonetti furono distribuiti in due codici allo scopo di evitare che se ne scoprisse la falsificazione, [17] e finalmente asseriscono che la lingua e il contenuto dei sonetti si mostrano palesemente estranei sia al secondo Duecento sia al primo Trecento. [18] 

Questi ragionamenti costringono a porsi alcune domande: se l'autore falsario ha temuto che il terzo e il quarto sonetto rivelassero la falsificazione, per quale ragione al mondo li ha composti oppure perché in tal maniera? Infatti egli avrebbe potuto evitare di scrivere i nomi rivelatori, o avrebbe potuto comporre soltanto i quattro sonetti tramandati dal Chigiano L VIII 305, risparmiandosi la fatica di scrivere gli altri due: nessuno al mondo ne avrebbe mai notato la mancanza. Se non è stato l'autore stesso a ficcare i due sonetti nel Rediano 184, bensì un falsario per denaro, come faceva costui a sapere che giusto quei due sonetti coi «riferimenti oscuri» [19] fossero capaci di rivelare la falsificazione? Come potevano alcuni nomi, esistenti a Firenze fin dalla metà del Duecento, tradire la condizione falsificata del tutto? E perché quei nomi avrebbero tradito la falsificazione al Salutati, e non pure a qualche altro collezionista-compratore? Ciò implicherebbe che il falsario non abbia creduto Antonio Salutati tanto «citrullo», «capo­scarico» e «scimunito» quanto pensano gli antiattribuzionisti. [20] Al Cursietti, che inciampa sui «motti» del quarto sonetto e quasi vi scorge una prova favorevole alla fattura in epoca burchiellesca, [21] vorrei amicamente ricordare che il termine ha una matrice semantica provenzale esistente già sul principio del Duecento; anzi, finanche presente nel capoverso della primissima canzone di quel Sordello da Goito, che tanta affinità intellettuale mostra d'avere con Dante purgatoriale: Bel m'es ab motz leugiers a far ... In fin dei conti, perché mai Dante e Forese non potrebbero aver utilizzato un doppio senso alquanto osceno in questa tenzone, visto che anch'essi sono stati fiorentini come Il Za e Burchiello, e perché non potrebbe essere stata proprio la Tenzone a suggerire la composizione di rime trivialmente burlesche al Za ed ai suoi colleghi del primo Quattrocento? Costoro avrebbero poi esasperato il tema, fino a creare una triviale moda poetica intorno all'anomalia sessuale; fenomeno paragonabile a quello che, nel cinema del secondo Novecento, ha esasperato pure in senso triviale-sessuale il tema 'Dracula', partendo da quell'unico romanzo scritto da Bram Stoker alla fine dell'Ottocento.

Parlando di date, bisogna dire che, anche se per il Chigiano L VIII 305 si accettasse una datazione posta sul principio del Quattrocento, anziché intorno alla metà del Trecento (come hanno sostenuto Monaci, Barbi, Contini, De Robertis ed altri critici), per lo stato delle nostre reali conoscenze attuali niente ci impedisce di credere che l'archetipo e l'autografo dei sonetti fossero di un secolo più vecchi. Ed essi non sono stati menzionati prima d'allora, logicamente perché sepolti in una collezione privata rimasta inaccessibile fino alla seconda metà del Trecento, quando è venuta nelle mani di Coluccio Salutati; il quale, com'è noto, aveva imparato dal suo magister Pietro da Moglio (deceduto nel 1383) ad accogliere in casa ogni sorta di intellettuali, tra cui potrebbe essersi trovato finanche Il Za. Deceduto Coluccio nel 1406, il figlio Antonio ha chiuso la ricca biblioteca paterna, forse segnatamente in faccia al Finiguerri; e questa potrebbe essere una delle ragioni per cui poi quest'ultimo è divenuto denigratore suo e di altri ammiratori di Dante. 

Pure verso la fine del Trecento (molto probabilmente proprio in casa di Coluccio), deve aver preso conoscenza della Tenzone l'Anonimo Fiorentino, il quale, essendo commentatore in volgare del poema, puntualmente ne ha fatto menzione chiosando l'incontro purgatoriale tra Dante e Forese. Si deve sempre tenere a mente che la mania di collezionare manoscritti e la ritrosia con cui essi venivano conservati, nelle case signorili di quei tempi, non solo giustificano perché tanti componimenti siano rimasti ignorati per molti secoli (si pensi a Silvae, al Contrasto di Cielo d'Alcamo, a Fiore, a Intelligenza, ad alcune Epistole dantesche, eccetera), ma spiegano anche plausibilmente perché i sonetti della Tenzone siano rimasti suddivisi entro due codici diversi fino al Seicento. Pensare che tale suddivisione sia avvenuta allo scopo di evitare che saltasse agli occhi la falsificazione mi pare non solo contraddittorio, ma pure una maniera fin troppo maliziosa di spiegare gli accidenti, sebbene in quello scorcio di tempo siano accadute cose veramente incredibili in fatto di falsificazioni letterarie.

Infine bisogna di forza ammettere che nessuno finora abbia sostenuto l'apocrifia dei sonetti apportando testimonianze incontrovertibili, il che si può dire anche nei riguardi del doppio senso triviale: infatti come si fa a convalidare ragionevolmente che, per esempio, l'espressione «se Dio ti salvi la Tana e 'l Francesco» non alluda alla sorella e al fratello di Dante, bensì all'ano e al pene dello stesso ?... Quanto all'articolo anteposto, che è parso terribilmente inusitato e sospetto, [22] bisogna ricordare che la Tenzone presenta un contenuto linguistico mantenuto ad un livello palesemente familiare od amicale, nell'ambito del quale il fenomeno dev'essere stato accettabile già nel Duecento; anzi, talvolta lo si vede comparire anche in frasi dirette, stando per esempio a questo brano del Tristano Riccardiano, cap. XVIII: «Come, l'Amoroldo? Com'è ciòe? Ed hami tue ferito?...». Ma non c'è bisogno di cercare tanto lontano, perché questo fenomeno è fortemente documentato finanche nel Dante Maggiore, ricorrendo esso in alcune occasioni misteriosamente sfuggite ai suddetti studiosi, grazie alle quali si può testimoniare incontrovertibilmente l'esistenza del costume nel linguaggio familiare/amicale della Toscana due-trecentesca: «il Tegghiaio» (Aldobrandi, If. VI 79); «il Mosca» (dei Lamberti, 80); «il Camicion» (de' Pazzi, If. XXXII 68); e ci sarebbe ancora If. XXXIII 89, «il Brigata», che però conta come soprannome. Per ciò che concerne le donne, mi basta solo citare il notissimo caso di Pg. V 133: «ricorditi di me, che son la Pia».

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[1] A tal riguardo vd. anzitutto U.BOSCO, Lectura Dantis Scaligera, Firenze, Le Monnier 1967, p. 875: «Non si deve interpretare la Tenzone come documento biografico, e parlare, come fa il Momigliano, di 'malavita', di 'bassofondo', di 'gioventù bestiale', e considerare i due interlocutori di essa come 'nemici', animati addirittura da 'odio reciproco'. In verità si tratta d'un'esercitazione letteraria...». Dello stesso parere fu G.CONTINI, Un'idea di Dante, Torino, Einaudi 1976, passim. Scettico e più realistico si mostrò invece G.FALLANI (Dante autobiografico, Napoli, SEN 1975, p. 41): «Tenzone o gioco letterario? Se non ci fosse stato un vero scontro, non si comprende la resipiscenza o il perdono del Purgatorio».

[2] D. GUERRI, La corrente popolare nel Rinascimento. Berte, burle e baie nella Firenze del Brunellesco e del Burchiello, Firenze, Sansoni 1931, pp. 104 sgg. Il Guerri, che trovò sulla sua strada esegetica Michele Barbi come antagonista e perciò fu costretto a tornare più volte sull'argomento (gli articoli si leggono ora nel volume Scritti danteschi e d'altra letteratura antica, cur. A. Lanza, Anzio, De Rubeis 1990, pp. 331-78), pensava ad un sottofondo osceno e ne vedeva gli autori in Giovanni Gherardi da Prato e in Bicci Castellani.

[3] A. LANZA, Polemiche e berte letterarie nella Firenze del primo Quattrocento, Roma, Bulzoni 1971, pp. 396-409; volume rielaborato e nuovamente edito nel 1989.

[4] M.CURSIETTI, La falsa Tenzone di Dante con Forese Donati, Anzio, De Rubeis 1995.

[5] Questo linguaggio è stato studiato e interpretato in quattro volumi da J. TOSCAN, Le carnaval du langage. Le lexique érotique des poètes de l'équivoque de Burchiello à Marino (XV-XVII siècles), Lille, Presses Universitaires 1981.

[6] Questo brano proviene dall'articolo di CURSIETTI, Nuovi contributi per l'apocrifia della cosiddetta 'Tenzone di Dante con Forese Donati' ovvero 'La tenzone del Panìco', misc. <Bibliologia e critica dantesca. Saggi dedicati a Enzo Esposito>, Ravenna, Longo 1997, II, p. 57.

[7] M. BARBI, Problemi di critica dantesca, Firenze, Sansoni 1941, II, pp. 133-4.

[8] Pietro di Dante, riferendosi alla «natural burella» di If. XXXIV 98, spiega che «dicitur burella secundum florentinum vulgare quilibet 'carcer obscurus'» (Comentarium, cur. V. Nannucci, Firenze, Olschki 1845, ad locum). Circa le 'burelle' fiorentine, vedasi pure R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, Firenze, Sansoni 1956-8, IV, p. 615 sgg.

[9] Io non ritengo assurdo opinare che Dante allegorico abbia fuso i due drammi familiari e vi abbia alluso tramite la menzione della «violenta morte» di Geri del Bello, If. XXIX 22-30 (si badi: nella bolgia dei falsatori), dove il poeta mostra pure di rammaricarsi che il delitto non fosse stato ancora vendicato nell'aprile del 1300, tempo del viaggio ultramondano. Secondo Pietro di Dante (Comentarium, cit., ad locum), l'uccisore di Geri sarebbe stato Brodaio dei Sacchetti e la vendetta sarebbe avvenuta solo trent'anni più tardi, per mano di certi nipoti di Geri (la pace fra le due famiglie fu firmata nel 1342 da Francesco, fratello di Dante, in nome di tutti gli Alighieri). Sull'episodio storico, cfr. M.BARBI, Problemi, I, Firenze, Sansoni 1956, pp. 275-6.

[10] A proposito dell'accusa di uccellatura rivolta a Forese, ed a proposito dell'allusione di Forese alla morte invendicata di Alighiero, mi sembra qui opportuno ricordare un fatto che va considerato molto indicativo: in Pg. XXIII 1-4, poco prima dell'incontro fra il Protagonista e Forese, Dante immette una similitudine costruita appunto sugli uccelli e sugli uccellatori:

Mentre che li occhi per la fronda verde

ficcava io sì come fare suole

chi dietro a li uccellin sua vita perde,

lo più che padre mi dicea: «Figliuole...».

Dopo quanto abbiamo detto circa la genialità allegorica e l'arguzia suggeritiva di Dante, mi chiedo se ci è lecito opinare che questa similitudine rappresenti l'abbrivo iniziale dell'allegorismo relativo al personaggio figurale a cui il Protagonista si sta avvicinando: quel Forese che, nella Tenzone, corre golosamente dietro alle starne nei boschi magnatizi fiorentini, rischiando così un fatale «nodo Salamone». Mi chiedo inoltre se ci è altrettanto lecito ipotizzare che l'espressione «lo più che padre», riferita a Vergilio, rappresenti un suggerimento psicologico di Dante in direzione del proprio padre biologico Alighiero, che nel sonetto di Forese ha già ricevuto il «nodo [...] di Salamone o d'altro saggio», ossia ha 'perso la vita' per aver poco saggiamente dato in cambio un altro tipo di «uccellin»: vale a dire gli «aguglin» falsificati (e si noti la corrispondenza intratestuale fra i due termini: entrambi al plurale, entrambi al diminutivo, entrambi apocopati). Dinanzi a simili intrecci scenico-allegorici ed a tali considerazioni, mi pare ragionevole credere che la Tenzone non rappresenti affatto una conseguenza del famoso incontro purgatoriale (come presumono gli antiattribuzionisti), bensì l'antecedente biografico che ha permesso a Dante di giustificare tale incontro.

[11] Riflettendo sugli ultimi due versi del sesto sonetto, «ma del panìco / mi reca, ch'i' vo' metter la ragione», il CURSIETTI (Nuovi contributi, cit., pp. 58-64) non ha potuto dichiararsi d'accordo con nessuna delle vecchie proposte interpretative. Pertanto lo studioso ha concluso che il testo sia corrotto e che quello originale sia stato questo: «ma ['n] del Panìco / mi reca, ch'i' vo' metter là ragione»; laddove «Panìco» indicherebbe un luogo di ritrovo fiorentino frequentato da prostitute, ruffiani ed omosessuali. Dunque il senso sarebbe: «portami nella taverna del Panìco, che voglio regolare là i conti con te» (ivi, p. 64). Ora io non credo che l'espressione «mettere la ragione» o «mettere ragione» possa essere piegata a significare una metaforica regolazione di conti: io non ho potuto rinvenire prova di tale significazione nei documenti anteriori al Cinquecento, allorché la frase significava assolutamente 'calcolare, computare, conteggiare' (ne derivano i moderni vocaboli 'ragioneria' e 'ragioniere'). Cursietti stesso convalida questi significati citando (ivi, p. 61) la migliore testimonianza lessicale trecentesca, presente nel Quaresimale fiorentino 1305-1306 di GIORDANO da PISA (cur. C. Delcorno, Firenze, Sansoni 1974, p. 362): «I mercatanti, quando vogliono mettere ragione, sì hanno i quarteruoli overo petruzze overo fave». Nel sonetto è invece questione di «panìco», perché logicamente Forese ha di mira due finalità estranee al commercio: vuole ritorcere l'accusa di uccellatura rivoltagli nel terzo sonetto, accusando a sua volta Dante stesso di possedere il panìco adatto a tale scopo; e vuole inoltre far capire che le persone in attesa che Dante vendichi il padre sono ormai divenute tanto numerose, che fa d'uopo addirittura il panìco per contarle (infatti il borsellino, nel quale i mercanti usavano conservare i quarteruoli o le fave o le pietruzze per il conteggio, poteva contenere un numero enormemente maggiore di semi di panìco).

[12] Tesi di A. LANZA, A norma di filologia: ancora a proposito della cosiddetta 'Tenzone tra Dante e Forese', L'Alighieri 10, n.s., 1997, pp. 43-54 (54).

[13] CURSIETTI, Nuovi contributi, cit., p. 71.

[14] Si capisce che il trascrittore avrebbe allora avuto dinanzi agli occhi un antigrafo pressappoco come questo: maincôtanête cheSodi fuimoSSo (con o senza titoli di raddoppiamento). Tale situazione antigrafica ha fatto in modo che al trascrittore sfuggisse la forma verbale «s'odì» e venisse in testa di porre « fodì», anche perché quest'ultima faceva senso nella quartina; onde Michele Barbi decise di integrare modernamente «che fu dì». Dal fatto che la lezione bartoliniana del verso si avvicini più di ogni altra a quella che io considero originale, mi azzardo a trarre la conclusione che l'antigrafo dell'esemplare bartoliniano sia stato approntato nella prima metà del Trecento, dunque su un archetipo non solo diverso in più punti dal Chigiano L VIII 305 (che oggi viene creduto capostipite), ma anche anteriore a questo. E ciò comproverebbe l'esistenza della Tenzone già in epoca dantesca, o comunque assai prima dell'epoca burchiellesca.

[15] E non bisogna dimenticare neanche il misterioso Cielo d'Alcamo, rimatore meridionale della metà del Duecento, il cui unico componimento rimastoci, il contrasto Rosa fresca aulentissima, mostra già una struttura strofica di 'tenzone' equivocamente erotica tra una Donna e un Uomo, con tanto di «manganiello» (= pene?) e di «castiello» (= seni?), terminante coi noti versi: «A lo letto ne gimo, a la bon'ora, / ché chissa cosa n'è data in ventura» (Dante stesso mostra di conoscere il componimento, del quale cita il terzo verso in De vulgari eloquentia I xii 6). Per altri esempi di poesia burlesca coltivata nei tempi danteschi, vedasi pure A.F.MASSERA, Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, Bari, Laterza 19405; M.MARTI, Poeti giocosi del tempo di Dante, Milano, Rizzoli 1956.

[16] A tal riguardo cfr. LANZA, A norma di filologia, cit., p. 49: «E il falsario fu davvero abilissimo se fece prendere lucciole per lanterne non soltanto al buon Antonio Salutati, ma anche a tanti moderni studiosi».

[17] CURSIETTI, Nuovi contributi, cit., p. 68: «Per noi l'origine dell'imbroglio è costituita dal codice Chigiano: è il suo compilatore che sceglie di escludere i sonetti mediani che avrebbero potuto svelare l'inganno».

[18] LANZA, A norma di filologia, cit., p. 46: «Sfido chiunque a trovare nella poesia in volgare italiano del Dugento e della prima metà del Trecento qualcosa di simile alla struttura totalmente equivoca della Tenzone».

[19] CURSIETTI, La falsa 'Tenzone di Dante con Forese', cit., p. 24.

[20] LANZA, A norma di filologia, cit., passim.

[21] L'argomentazione del Cursietti è ripetuta da LANZA, A norma di filologia, cit., p. 45.

[22] Tale è sembrato effettivamente anche ad E.ESPOSITO, che perciò inclina a vedervi un indizio favorevole all'apocrifia («Tenzone »: no, La parola del testo 1, 1997, pp. 268-71).

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