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Cono A. Mangieri, Gentucca ... figlia spuria di Dante?

2. Tra l'Ulisse e il Catone danteschi esistono analogie rimaste finora nascoste alla critica, eppure chiaramente suggerite nella struttura polisemica del racconto che li riguarda: entrambi hanno ceduto in gioventù a tentazioni di natura venerea; entrambi hanno ripudiato volontariamente la vita edonistica per condurre una vita stoica rivolta a méte più onorevoli, sebbene solo vagamente note; entrambi si sono inconsciamente messi contro una predestinazione divina diversamente impostata; entrambi sono stati portati dal fato verso porti e foci e lidi sconosciuti, sperimentando «l'ultima sera» lontano dalla patria tanto fedelmente servita. I due personaggi sono quasi reciproche controfigure; e ciò mi pare anche logico in quanto essi, a loro volta, sono stati entrambi concepiti come controfigure parziali di Dante Protagonista per un determinato periodo biografico, ragion per cui possono avere sicuramente qualche punto in comune anche tra di loro.

Questi punti di aderenza simbolistica fra le tre controfigure sono destinati a sparire, nondimeno, perché nell'anno 1304 succede qualcosa che allontana Dante dagli archetipi e perciò pone termine all'analogia tra il Protagonista e le sue controfigure. A quella data, infatti, Dante storico aveva abbandonato i compagni 'matti ed empi' per formare 'parte per se stesso'; [1] onde si capisce che aveva agito diversamente da Ulisse, il quale era perito coi compagni per aver voluto continuare testardamente il suo «folle volo»; ed aveva pure agito diversamente da Catone, il quale aveva ben abbandonato i compagni per non voler più contrastare l'avvento di Cesare predestinato da Dio, ma lo aveva fatto suicidandosi. Pertanto si può dire che Dante abbia preferito seguire l'esempio di Enea, il quale ugualmente aveva conosciuto un periodo di piaceri edonistici presso Didone, ma se ne era disfatto nel consiglio divino di seguire l'«onesta e laudabile via e fruttuosa» che lo avrebbe portato in Italia. [2] Questo tipo di ravvedimento 'lodevole' ha consentito ad Enea di gettare le fondamenta dell'Impero Romano predestinato da Dio ed ha poi consentito a Catone di raggiungere, almeno post mortem, il lido antipurgatoriale; Ulisse invece ha naufragato proprio dinanzi a quel lido, colando quindi a picco verso Malebolge per diventare laggiù «l'unica voce senza corpo dell'Inferno», come annotò Chiavacci Leonardi. [3] Un inabissamento, questo d'Ulisse, che implica un suggerimento in direzione dell'altra particella controfigurale chiamata «Anfiarao», anch'essa sprofondata direttamente in Malebolge «perché volle veder troppo davante» ( If. XX 38), dunque similmente rea di aver voluto 'conoscere' oltre i limiti concessi dalla Divinità al genere umano non ancora redento.

Una volta individuata, diventa vieppiù chiara la sottile relazione allegorica che connette Ulisse, Catone ed Enea con Dante poeta e protagonista. Difatti anche Enea aveva vissuto un'avventura similare, e ben sullo stesso mare navigato dai primi due, specie da Ulisse, come pose in rilievo il Renucci; [4] anzi, come fa rilevare Dante medesimo durante il racconto del suo Ulisse:


là presso a Gaeta,

prima che sì Enea la nomasse.


Però si faccia attenzione alla grande differenza intellettuale e simbologica che il poeta coglie fra l'eroe itacese e l'eroe troiano: il primo si lancia contro la Divinità e danneggia il Palladio, il secondo si sottomette alla Divinità e salva il Palladio; il primo, scevro di fedeltà matrimoniale e di amore familiare, fa il porco sessuale nella grotta di Circe, naviga alla cieca «per l'alto mare aperto» e non si preoccupa di civilizzare o di mettere in carta i luoghi visitati (tocca Gaeta prima di Enea, ma il nome glielo dà quest'ultimo), badando palesemente solo al proprio utile (cfr. XXVI 99-100 : «a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore»); il secondo invece rischia la vita per salvare il vecchio padre Anchise dall'incendio troiano, non tradisce la moglie Creusa finché questa vive, naviga con una destinazione, anzi con una predestinazione, porta nei luoghi toccati l'ordine e la civiltà (Acesta, Gaeta) oppure il più bel sentimento umano, l'amore (Cartagine, Lazio). Insomma all'eroe greco manca il senso religioso (impius Ulixes, lo chiama infatti Vergilio), e perciò vede infine chiudersi sopra di sé «l'alto mare aperto» che lo aveva allettato sul principio; all'eroe troiano, che ben possiede il senso religioso (pius Aeneas, lo chiama Vergilio), manca purtroppo la «buona e vera religione», ossia «la fede sanza qual ben far non basta», ed è perciò costretto ad aspettare nel Limbo il giorno del Giudizio Universale.

Proprio come nell'Ulisse vergiliano, non c'è quasi niente di buono nell'Ulisse dantesco, contrariamente a quanto ne dissero e dicono taluni critici, tutti commossi dall'eroica lotta condotta dall'Itacese per fabbricarsi il proprio destino. Dopo essere stato epicureo ante litteram, egli è divenuto stoico ante litteram, però gli manca tuttora la sottomissione alla Divinità e perciò oltrepassa i limiti assegnati al suo scibile, cosa che Catone in verità non ha mai fatto. Ulisse rispecchia ciò che dev'essere stato Dante negli anni tra il 1300 e il 1304: irreligioso presuntuoso ostinato incostante, in realtà egli è biasimato dal poeta molto più di Enea ed infinitamente più di Catone, che non era stato semidio, bensì tutto umano, e perciò aveva dato prova di grande fortezza d'animo nell'accusare il proprio errore politico, suicidandosi infine per liberarsi dall'obbligo stoico di continuare sulla strada invisa a Dio ed al Fato: «però è più laudabile l'uomo che drizza sé e regge sé mal naturato contra l'impeto de la natura, che colui che ben naturato si sostiene in buono reggimento o disviato si rinvia». [5]

A me sembra ovvio che Dante abbia pensato anche a se stesso, così scrivendo; ed è perciò chiaro che Catone sia apparso ai suoi occhi finanche «più laudabile» di Enea, al quale infatti non ha voluto paragonarsi direttamente in If. II 32. Invece Catone «mal naturato» e predestinato all'Inferno, come Bruto e Cassio, ha trovato la forza d'animo di sottrarsi all'atroce destino uccidendo non Cesare bensì se stesso, in Utica dei Garamanti, la cittadina africana che distava solo pochi chilometri («non molto distante», informa anche Polibio) [6] da quella Cartagine in cui era sbocciato l'amore di Enea per Didone e da cui era poi partito il Troiano «per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa». Quasi come se Dante avesse colto (e secondo me ha colto veramente) nel ritorno di Catone al punto di partenza di Enea verso l'Italia un segno di pentimento catoniano, che avrebbe indotto il fiero repubblicano a 'rifiutare la vita' spesa al servizio di ideali politici invisi a Dio. Un pentimento avvenuto dunque nello stesso luogo sopra il quale, secondo Eneide I 286 sgg., il «sommo Giove» aveva rivelato a Venere la futura pacificante e gloriosa venuta dell'Impero:


Nascetur pulchra Troianus origine Caesar,

imperium Oceano, famam qui terminet astris,

Iulius, a magno demissum nomen Iulo.

Hunc tu olim caelo, spoliis Orientis onustum,

accipies secura; vocabitur hic quoque votis.

Aspera tum positis mitescent saecula bellis;

cana Fides et Vesta, Remo cum fratre Quirinus

iura dabunt ...


Catone sicuramente «più laudabile» di Enea, dunque, giacché questo si trova nel barlume della notte limbica e quello è collocato già nel chiarore del mattino antipurgatoriale. Però si badi bene: questa graduatoria rispecchia esclusivamente il giudizio del Dante 'filosofico', ossia mirante a quel Vergilio poeta-filosofo capace di saltare da Romolo e Remo che «iura dabunt», nel divino pronostico di gloria imperiale romana, a Catone che a sua volta dà questi «iura» nei ceselli dello scudo di Enea: [7] quasi per fare dell'ultimo fautore della Repubblica anche il primo difensore dell'Impero. Il Dante 'teologico', invece, sa benissimo che l'exit terreno dell'Itacese e dell'Uticense ha fatto parte di un meritato castigo divino, e pertanto capisce pure che gli tocca seguire un altro esempio: appunto quello di Enea. Effettivamente Dante, pur non osando palesare un paragone diretto tra la propria avventura e quella di Enea (anzi, egli finge di rifiutare tale paragone, in If. II 13-33), nell'allegorismo generale mostra tuttavia di averla avuta presente, almeno parzialmente e segretamente. Infatti anche il Protagonista lascia dietro di sé il proprio peccaminoso 'inferno' per seguire una via «più laudabile», una rotta che lo portasse verso un modello di vita migliore: 


Per correr miglior acqua alza le vele

omai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sé mar sì crudele; (Pg. I 1-3)


anche il Protagonista si è liberato per divino consiglio (If. II 94 sgg.) dell'intellettualismo che lo rendeva parzialmente simile ad Ulisse ed a Catone, per emulare piuttosto Enea ed effettuare una traversata «fruttuosa», che lo avrebbe finalmente portato nella terra promessa dell'Eden, simbolo di massima felicità o beatitudine o perfezione terrena. 

Che Dante abbia segretamente visto nel viaggio di Enea una 'prefigurazione' del proprio viaggio allegorico-esistenziale appare palese grazie ad alcuni dati strutturali, uno dei quali sembra celarsi in una curiosa circostanza sfuggita finora all'attenzione dei critici. Infatti, considerando che il viaggio marino e il viaggio ultramondano di Enea non possono essere visti staccati l'uno dall'altro (il secondo è avvenuto durante quel primo), ne deriva che la visita del Troiano all'Oltretomba debba essere collocata nel 1166 a. C., anno in cui sarebbe avvenuta la caduta di Troia e perciò il viaggio di Enea (secondo la cronologia di Paolo Orosio seguìta nei tempi danteschi). [8] Il viaggio ultramondano dantesco, a sua volta, comincia il Venerdì Santo del 1300, esattamente 1266 anni dopo la morte di Cristo, stando alla cronologia fornita dal poeta medesimo in If. XXI 112-4:


ieri, più oltre cinqu'ore che quest'otta,

mille dugento con sessanta sei

anni compiè che qui la via fu rotta.


Tenendo conto di ciò, non risulta assurdo opinare che tra la data del viaggio ultramondano di Enea e la data del viaggio ultramondano di Dante si celi una sorta di analogia cronologica (oltre che strutturale), la quale appare quasi miracolosamente incorporata nelle finalità allegoriche generali responsabili della cronologia fittizia addossata al poema. Giacché non mi sembra ragionevole considerare casuale il fatto che 1166 anni prima della nascita di Cristo sia avvenuto il viaggio di Enea decantato dal 'maestro' Vergilio, e 1266 anni dopo la morte di Cristo avvenga il viaggio del Protagonista decantato dal 'discepolo' Dante: tra le due date si rinviene una differenza di 100 anni, durante i quali si sono svolte le vite di Cristo e di san Paolo. In tal modo, il viaggio ultramondano di Enea e quello del Protagonista vengono a costituire degli antipodi cronologici separati centralmente dal Secolo di Cristo e di san Paolo, gli unici altri due personaggi storici che avrebbero effettuato una similare traversata ultramondana, come Dante informa opportunamente nel secondo canto infernale. Se c'è qualche lettore a credere che tutto ciò sia soltanto frutto della coicidenza, allora non so proprio che cos'altro dire per convincerlo del contrario.

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[1] Cfr. Pd. XVII 55 sgg.

[2] Cfr. VERGILIO, Eneide IV 222 - 275; ma pure Convivio IV xxvi 8: «E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partìo, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa».

[3] Cfr. A.M. CHIAVACCI LEONARDI, La guerra de la pietate, Napoli, Liguori 1979, p. 139, nota 3.

[4] Vedasi a tal proposito P. RENUCCI, Dante disciple et juge du monde gréco-latin, Paris, Les Belles Lettres 1954, p. 212.

[5] Convivio III viii 19.

[6] Cfr. POLIBIO, Storia Romana I 39.

[7] Cfr. VERGILIO, Eneide VIII 670: «his dantem iura Catonem».

[8] Cfr. P. OROSIO, Historiae I 18.

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