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Ileana Tozzi, La collezione di croci astili del Museo Diocesano di Rieti: fonti per lo studio dell'arte orafa in un territorio di confine.

Il progressivo spopolamento della montagna e della campagna, inesorabilmente legato ai flussi di inurbamento sollecitati dal processo di industrializzazione che sia pur tardivamente interessò il territorio centroappenninico fin dalla seconda metà del XIX secolo assommandosi alle conseguenze delle soppressioni postunitarie, provocò la chiusura di numerose chiese e la dispersione dei loro arredi che spesso erano testimonianza ed espressione di devozione secolare: grazie all'operato assiduo di sacerdoti e vescovi illuminati, coadiuvati da solerti funzionari delle istituzioni civili, una parte considerevole del patrimonio storico-artistico della Diocesi di Rieti ha potuto trovare adeguata custodia presso i musei locali.

Rieti, che a metà Ottocento faceva parte della Delegazione Apostolica dell'Umbria, entrò a far parte del Regno d'Italia fin dal 1861: già nel 1865, presso il duecentesco convento degli Agostiniani fu istituita la pinacoteca civica trasferita nel 1909 presso la sede comunale.
Dopo gli interventi di consolidamento e riassetto del palazzo municipale resi urgenti dal terremoto del 1898, il terzo piano dell'edificio fu infatti destinato ad ospitare la collezione civica, che si arricchì di reperti archeologici ed acquisì un più organico assetto museale.

Al Museo Civico fu destinata la collezione di croci astili pazientemente raccolta dal vescovo dal vescovo Bonaventura Quintarelli, [1] testimone delle tensioni postunitarie che chiusero il XIX secolo e protagonista delle prime, caute aperture che anticiparono i Patti Lateranensi del 1929.

Fra i tratti meno conosciuti della personalità e della cultura di monsignor Quintarelli, merita di essere rammentato l'amore per l'arte e l'intelligente, assiduo impegno profuso nella tutela dei beni storico-artistici del territorio diocesano.

Grazie alla sua tenace determinazione, fu evitato nel 1898 l'abbattimento della torre campanaria del Duomo, lesionata dal violento terremoto che aveva colpito la città: le autorità del Genio Civile ritenevano infatti di dover procedere allo smantellamento del campanile, ritenuto un elemento di rischio per l'incolumità pubblica.

Il vescovo Quintarelli si oppose al drastico intervento, provvedendo - in parte, a sue spese - ai necessari lavori di consolidamento.

Nel corso delle visite pastorali compiute nel territorio diocesano, come testimonia il cugino, canonico Leopoldo Quintarelli, autore della sua biografia, il vescovo reatino infatti « raccolse e comperò a sue spese oggetti artistici sacri e profani, che la insipienza e la ignoranza dei detentori lasciavano trascurati nelle soffitte e che sarebbero certamente andati perduti, se il provvido intervento (.) non li avesse messi in rilievo ed onore. Con l'andar degli anni aveva nell'Episcopio adibito un corridoio - che servì un tempo da cappella privata del Vescovo - e in un grande armadio chiuso, conservava gli oggetti d'arte sacra raccolti nelle sue pastorali peregrinazioni. Questo piccolo museo, ricco di tanti oggetti di cui l'occhio esperto e competente di mons. Quintarelli aveva saputo riconoscere il valore artistico, alla sua morte fu lasciato in donazione al Museo Civico di Rieti che vide così aumentata la serie di tesori d'arte di cui è ricco » [2] .

Monsignor Quintarelli raccolse quattro croci astili: in particolare, si segnalano per il pregio e la raffinatezza dell'esecuzione delle tre croci arcaiche, datate ai secc. XIII-XIV, riferibili all'esecuzione di orafi abruzzesi in stretto contatto con l'enclave del Cicolano, territorio del Regno di Napoli che rimase secolarmente parte integrante della Diocesi reatina.

Di una di queste si è in grado di risalire alla provenienza: si tratta infatti di una croce astile in ottone argentato lavorata a sbalzo, già presso la chiesa parrocchiale di Roccarandisi, nel Vicariato di Regno.

Sul recto, vi sono raffigurati a rilievo piuttosto schiacciato al centro il Cristo crocifisso, sui bracci trilobati a sinistra la Madonna, a destra San Giovanni evangelista, in alto un angelo, in asse rispetto al legno della croce, in basso il monte Calvario.

La figura del Cristo, dall'impianto bizantineggiante, è caratterizzata dal lungo perizoma che scende fin sulle ginocchia, lievemente flesse. I piedi disgiunti sono appoggiati sul suppedaneo.

Sul verso, domina al centro la figura del Risorto, seduto sul trono; sui bracci della croce sono disposti dischi centinati, rosette e semplici decorazioni geometriche. Entro i quattro lobi sono inscritti i simboli degli Evangelisti.

I documenti del Ministero del Fondo per il Culto che corredarono nel 1922 il deposito museale della Collezione Quintarelli non recano indicazioni a proposito di un'altra pregevole croce in argento lavorata a sbalzo, che conserva ancora elementi decorativi in smalto policromo.

Sul recto, al centro è il Crocifisso con il capo reclinato, l'anatomia del corpo efficacemente modellata, le ginocchia flesse, i piedi uniti. Sul braccio sinistro, trilobato, è raffigurata la Vergine. L'immagine del braccio destro - probabilmente, San Giovanni evangelista - è consumata, ridotta ad un illeggibile abbozzo.

In alto, impostato sull'asse della croce è un medaglione in smalto raffigurante il busto di un Santo; nella sovrastante cornice lobata è raffigurato un angelo, mentre ai piedi della croce è inclusa la figura di un Profeta.

Sul verso, al centro è il Salvatore in trono, in atto benedicente: l'aureola è smaltata. In basso e ai lati, nei bracci della croce sono raffigurati tre busti di Santi. Nei lobi di destra e di sinistra, sono leggibili gli emblemi parlanti degli Evangelisti Marco e Luca, mentre sono del tutto appiattiti i lobi in alto ed in basso della croce, in cui dovevano essere raffigurati l'uomo alato e l'aquila.

La croce astile in questione appartiene a quel corpus di opere dell'oreficeria abruzzese diffusasi a partire dal XIII secolo nel teramano, lavorata a sbalzo in metallo su armatura in legno, documentata nell'aquilano fino alle propaggini cicolanensi.

Allo stesso tipo arcaico, con ascendenze bizantineggianti, appartiene la terza croce astile in ottone argentato, lavorata a sbalzo e cesello.

Nel primo quarto del Novecento, i tempi non erano certo maturi per ipotizzare a Rieti l'apertura di un Museo diocesano: ma l'idea di custodire, catalogare, studiare sotto il profilo artistico, liturgico e devozionale le opere d'arte sacra che caratterizzano nel corso dei secoli la cultura materiale locale fu fin da allora a cuore dei vescovi che si avvicendarono alla guida della Diocesi. Il primo, determinante passo in questa direzione fu compiuto nel 1974 da monsignor Dino Trabalzini (1971-1980) che, avvalendosi della collaborazione di Luisa Mortari, inaugurò il Museo del Tesoro del Duomo, allestito presso il battistero di San Giovanni in Fonte.

La collezione di croci astili vantava all'epoca già una ventina di pezzi: fra questi, si segnalavano la croce capitolare della chiesa di Santa Maria del Popolo di Cittaducale [3] e la preziosa Croce di Borbona, che risale al XIV secolo ed è caratterizzata dall'inclusione di ben trentotto smalti policromi.

Attualmente, poiché si sono realizzate le condizioni di salvaguardia e sicurezza indispensabili per il deposito, le due croci sono custodite presso le chiese per le quali vennero realizzate.

Intanto, il Museo Diocesano si è ulteriormente arricchito di opere e si è sviluppato in un percorso espositivo complesso, che all'aula del Battistero unisce le sagrestie della basilica inferiore, il lapidarium e la sala delle udienze del palazzo papale, in cui è stata collocata la pinacoteca.

Il corpus delle croci astili che vi si trovano custodite ammonta ad oggi a 19 pezzi: si tratta di un nucleo consistente di otto croci arcaiche a cui si aggiungono sei pregevoli croci quattrocentesche, due croci del XVI secolo, una croce rispettivamente per i successivi secoli XVII, XVIII, XIX.

Se l'origine temporale rivela il radicamento di una tradizione, la distribuzione nello spazio segna con marcata evidenza l'area del Vicariato di Regno, enclave della Diocesi di Rieti nel territorio napoletano, in cui domina il linguaggio artistico dell'oreficeria abruzzese.

Sono però rappresentate da un numero apprezzabile di esemplari le zone a contatto con l'Umbria, come è nel caso delle croci di Santa Maria Maggiore di Labro e di San Lorenzo Martire di Morro, e con la Sabina romana, da cui proviene la croce della parrocchiale di San Salvatore a Belmonte (1547) e la croce della parrocchiale di Santa Maria della Neve a Vallecupola, recentemente riconosciuta come opera di Jacopo del Duca [4] .

E' dunque evidente che anche nel campo dell'oreficeria Rieti ha rappresentato un luogo di mercato e di scambio di esperienze ed influssi artistici, in cui si sono confrontate le tecniche e si sono proposti i diversi linguaggi dell'iconografia.

Ma la lettura analitica della croce capitolare di Rieti, opera di un artista locale, consente di riconoscere i tratti di una cultura autonoma, che durante la stagione della prima età moderna si rivelò in grado di far sintesi delle più varie esperienze che filtrarono e si fusero in questa terra di confine.

Le fonti d'archivio ci informano che nel 1372 il Capitolo della Cattedrale di Rieti si rivolse ad un maestro aquilano per dotarsi di una croce astile, che fu acquistata per la cifra di 90 fiorini. Una sommaria descrizione ci consente di sapere che la croce era in argento laminato, con inclusioni a smalto.

Sappiamo infine che sul recto presentava accanto al Crocifisso le immagini della Madonna e di San Giovannino, mentre il lobo sovrastante l'asta recava l'immagine della patrona Santa Barbara.

Un secolo più tardi, la croce aquilana appariva piuttosto rovinata e, soprattutto, non soddisfaceva più con i suoi tratti arcaici il gusto del Capitolo che decise di fonderla per realizzarne due candelieri ed affidò l'incarico di realizzare una nuova croce ad un artista reatino, Giacomo Gallina [5] (1418 ca.-1493).

Giacomo di Battista di Nicola Gallina, nato nel sestiere di Porta Carceraria de intus e titolare di una bottega in Porta Romana de supra , frequentò in gioventù il laboratorio del senese Galgano di Mino da Siena, attivo a Rieti nei primi decenni del Quattrocento, perfezionandosi più tardi (presumibilmente, fra il 1436 ed il 1442) nell'arte dell'oreficeria all'Aquila.

Tornato in patria, fu artista apprezzato e cittadino esemplare esercitando cariche pubbliche di rilievo: per ben nove volte fu Gonfaloniere [6] , fu procuratore del monastero delle Clarisse di Santa Lucia, nel 1467 per conto del Comune fu Aggiustatore dei pesi e misure.

E' il caso di notare come in quel torno di anni si elaborassero gli Statuti dei Consoli delle Arti, pubblicati nel 1474. L'Arte degli Orefici venne allora annoverata fra le Arti maggiori, unita all'arte dei giudici, dei nobili, dei notai, dei tavernieri, degli speziali, dei medici, dei barbitonsori.

In quell'anno 1474, i priori del Comune di Rieti Giovanni di Lorenzo, Giuliano Danzetta, Tommaso di Giovanni di Sabina e Colasante Puciaritti avevano provveduto ad unificare in quattro gruppi le trentanove Arti esistenti in città « poiché - come recita il cap. 1° degli Statuti - dove c'è moltitudine ivi c'è confusione e, a causa di un numero eccessivo di consoli non sarebbe facile la ricerca di quelli capaci, dal momento che la qualità consiste nella rarità ».

All'arte degli Orefici si continuarono ad applicare le normative previste dal cap. 50 del Lib. III degli Statuti Civici [7] , di cui Giacomo Gallina era stato zelante esecutore.

La croce capitolare fu realizzata fra il novembre 1476, quando vennero incaricati di soprintendere ai lavori i canonici Ser Poalo da Montegambaro e Ser Bartolomeo Roselli, ed il maggio 1478, quando l'artista rilasciò al Capitolo la quietanza finale.

Il prezioso manufatto, che s'innesta sul nodo della croce trecentesca in rame dorato lavorato a sbalzo, fu realizzato applicando sull'armatura lignea sottili lamine d'argento e di argento dorato lavorate a sbalzo, cesello e fusione.

Sul recto, la figura del Crocifisso dall'intensa plasticità è affiancata alla destra dal gruppo delle pie donne che soccorrono la Madonna, alla sinistra dall'immagine di San Giovannino.

Nella cornice mistilinea del lobo in cui culmina l'asta è raffigurato il pellicano, simbolo del sacrificio di Cristo, in basso è Santa Barbara patrona di Rieti.

Nel verso, il Risorto in atto benedicente è affiancato nelle cornici lobate dalle figure finemente modellate di San Giovanni Battista, dell'Arcangelo Gabriele e della Vergine Annunziata, di Sant'Eleuterio martire [8] e di un Profeta.

Nella raffinata, polita eleganza della croce capitolare, l'artista reatino seppe far convergere il gusto rinascimentale fiorentino appreso dal suo primo maestro e la forza plastica della tradizione abruzzese dando prova della sua abilità di cesellatore e consentendo all'arte dell'oreficeria reatina di svincolarsi da una condizione di dipendenza ormai anacronistica sia dal punto di vista commerciale sia - e soprattutto - dal punto di vista culturale.

Nei secoli a seguire, però, tale condizione si sarebbe riproposta avendo come fulcro le grandi botteghe romane, abituate a lavorare per la committenza di pontefici, cardinali, ecclesiastici di rango, come dimostra la croce processionale realizzata dall'orafo Vincenzo Belli II al tempo del vescovo Timoteo Ascensi [9] .

 

 

[1] Nato a Bagnoregio il 29 marzo 1844, terzo degli undici figli di Leopoldo e Pacifica Urbani, entrò a dodici anni in Seminario. Nel 1865 conseguì la laurea in Filosofia, rivelandosi attento, profondo interprete della Scolastica sulle orme del conterraneo San Bonaventura, di cui ripeteva auguralmente il nome.

Nel 1868 venne ordinato sacerdote dal Cardinale Patrizi, vicario pontificio, presso la basilica romana di San Giovanni in Laterano. Tornato a Bagnoregio, fra il 1872 e il 1880 fu rettore del Seminario diocesano curandovi nel contempo gli insegnamenti di filosofia, teologia dogmatica e teologia morale.

Fu assiduo collaboratore del vescovo, monsignor Corradi, fino al 24 marzo 1895 quando ricevette la consacrazione episcopale: gli fu affidata la Diocesi di Rieti, che resse per un ventennio, fino alla morte che lo colse il 31 ottobre 1915.

[2] L. Quintarelli, Monsignor Bonaventura Quintarelli da Bagnoregio Vescovo di Rieti , Rieti 1919 pag. 12

[3] Città ducale, fondata nei primi anni del XIV secolo da Carlo II d'Angiò ed affidata al duca Roberto suo successore sul trono napoletano a presidio dei confini fra il Patrimonio di San Pietro ed il Regno di Napoli, fu eretta al rango di Diocesi da papa Alessandro VI nel 1502.

Soppressa per breve tempo da papa Giulio II, sensibile alle proteste del vescovo di Rieti cardinale Giovanni Colonna, fu ricostituita nel 1508. Nel 1798, morto tragicamente il vescovo monsignor pasquale Martini durante l'occupazione delle truppe napoleoniche, la Diocesi di Cittaducale fu affidata all'amminstrazione di un Vicario Capitolare e fu definitivamente soppressa nel 1818, per effetto del concordato sottoscritto fra la Santa Sede ed il Regno delle Due Sicilie. Il territorio civitese fu incorporato nell'Arcidiocesi dell'Aquila, di cui è rimasto parte integrante fino al 1976 quando è stato riaggregato alla Diocesi di Rieti.

[4] Cfr. P. Berardi-A.Crielesi, Jacopo del Duca, "Nell'hombra del Missere" , Firenze 2002.

[5] Cfr. A. Sacchetti Sassetti, Orafi dell'Italia Centrale dei secc. XIV e XV , Rieti 1957

[6] fra il 1451 ed il 1487

[7] Questo di seguito è il testo del cap. 50 del Lib. III degli Statuti Civici, che recitava: « teneantur, quod Aurifices Reatini et quilibet exercentes aurificium in civitate habere et tenere et laborare argentum extimatum ad legam sol. XX pro qualibet uncia ad minus et abinde infra non, et contrafaciens poena X libr. puniatur qualibet vice. Teneantur quoq. Aurifices prædicta mercare et mercari facere argentum et signum seu mercum Communis imponete in suis operibus et laboritiis quæ commode possint sigillari et mercari a dimidia uncia supra. Nihilominus ponant mercum suum seu signum in dicto laborerio seu laboreriis, & dictum mercum seu signum faciant fieri Domini Priores, & deponere apud Mercatorem fidelem, qui adpetit, dictorum Artificum signum seu mercum Communis imponat & signet, & hoc vendicet sibi locum in argento laborando de novo, & in laborato a quatuor annis citra prædicta locum non habeant. Qui Mercator apud quem dictum mercum apponend. erit habere debeat per unum Annum, & sic de Anno in Anno eligantur. Qui Mercator si signaret vel mercum imponeret in argento minore extimationis XX sol. teneat ad poenam X. libr. vice qualibet, & teneantur quilibet Aurifices si & quando pependerint referre, & denuntiare ac etiam indicare Potestati vel Cap. & quælibet Archimistam seu falsatorem auri vel argenti ad poen. L. libr. si contrafecerit aut prædicta obmiserit ».

[8] Le cui spoglie sono custodite presso la Cattedrale di Rieti insieme con le reliquie della madre Anzia.

[9] Fra Timoteo M. Ascensi, Carmelitano, resse la Diocesi di Rieti dal 1824 al 1827. Prima di assumere l'incarico episcopale, era stato professore di Teologia morale e membro del Collegio teologico dell'Università di Roma.


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