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Aggiornamento sugli scavi di San Vincenzo al Volturno

Il ciclo di incontri che l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo ogni anno organizza nella prestigiosa sede di Piazza dell’Orologio a Roma, si è quest’anno concluso martedì 4 giugno 1996 con una conferenza, tenuta da Richard Hodges, John Mitchell e Federico Marazzi, dedicata agli scavi di San Vincenzo al Volturno.
Gli scavi archeologici iniziati dalla British School nel 1980, sotto la direzione di Richard Hodges e su incarico della Soprintendenza Archeologica del Molise, hanno consentito di riportare alla luce un complesso monastico alto-medievale fra i più importanti d’Europa, di cui peraltro conosciamo le vicende storiche grazie al codice miniato del Chronicon Vulturnense, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, del quale è imminente una nuova pubblicazione a cura di Federico Marazzi. Autore dell’opera è il monaco Giovanni, forse abate di S.Vincenzo nel 1130, il quale ripercorre la storia del monastero al fine di nasconderne il declino che esso attraversa nell’epoca a lui contemporanea. La fondazione avvenne tra la fine del VII e gli inizi dell’VIII secolo ad opera di tre monaci provenienti da Farfa, Paldo, Taso e Tato, in un luogo selvaggio e boscoso concesso loro dal duca di Benevento. Non si può affermare con sicurezza che proprio nello stesso luogo sorgesse la città di Samnium, anche se nella zona si sono trovati i resti di un piccolo santuario di IV secolo a.C., punto focale di un centro sannita abbandonato nel III secolo a.C. Successivamente, all’incirca nella stessa zona, sorse una villa romana di notevoli dimensioni, cui fece seguito, dopo il suo abbandono nel V secolo d.C., un vero e proprio villaggio ubicato sul Colle della Torre, il quale condizionò per i sei secoli successivi lo sviluppo degli edifici altomedievali con la sua planimetria. Fu così che la prima chiesa abbaziale, il San Vincenzo Minore, nacque in realtà dalle trasformazioni della chiesa cimiteriale tardo-romana, mentre la torre sulla terrazza soprastante divenne il nucleo principale del cimitero monastico. In seguito al San Vincenzo Minore fu aggiunto un deambulatorio, il quale, pur nella sua semplicità di esecuzione, è un chiaro segno del tentativo di attrarre l’attenzione su questo punto del luogo di culto, in cui erano conservate le reliquie. I cambiamenti maggiori iniziarono con la fine dell’VIII secolo e gli inizi del IX, cioè nel periodo in cui fu abate Giosuè. Innanzitutto il cuore del monastero fu trasferito dall’interno del vecchio complesso tardo-romano, nei pressi del Ponte della Zingara, a un nuovo sito, sul lato meridionale della collina. Venne ora costruito il San Vincenzo Maggiore, punto centrale di un piano per la creazione di una città monastica, il cui progetto sembra abbia avuto come modello di riferimento generale la pianta di San Pietro a Roma. Costruito su di un podio realizzato da un enorme accumulo di terra e argilla, l’edificio consisteva di una basilica, un atrio e un ingresso monumentale a est, o eastwork, per una lunghezza totale di 63 metri e una larghezza di 28,7 metri, misure davvero eccezionale per l’epoca. Le tre navate erano separate da 16 colonne in granito rosa di Assuan, provenienti, secondo quanto ci riferisce il Chronicon, da un tempio romano di Capua, mentre il pavimento della chiesa, poi sostituito nell’XI secolo, era in marmo proconnesio. Le dimensioni fuori del comune dell’ambizioso progetto di Giosuè, così come l’uso consapevole di spolia antichi, chiaro segno di un gusto e senso estetico denso di richiami all’antichità, sono fra le caratteristiche che più spiccano, oltre al fatto che ogni ambiente fosse decorato con affreschi, come vedremo fra poco, e che per la realizzazione di questa splendido monastero, all’epoca uno dei più grandi d’Europa, occorse la manodopera di un gran numero di artigiani. Punto focale della chiesa abbaziale era la sua grande estremità occidentale, costituita da un’abside centrale maggiore, di 15 metri di diametro, affiancata da due absidi minori. All’interno vi era una cripta anulare, dotata di passaggio allineato assialmente, inclusa già nel progetto originale. La pavimentazione, di cui purtroppo sopravvivono solo poche tracce, era in opus sectile, mentre le pareti e la volta erano riccamente decorate a fresco. Della decorazione pittorica si è occupato John Mitchell, il quale ha ricostruito quello che doveva essere inizialmente l’apparato di affreschi, oggi purtroppo in parte perduto. L’originario partito della decorazione a fresco della cripta comprendeva parti figurative e parti articolate sulla base di motivi geometrici di vario tipo. Sulle volte e sulle parti superiori dei muri dovevano essere dipinte figure chinate di angeli e di santi, le quali vennero purtroppo smantellate al momento in cui la cripta venne abbandonata, dunque con ogni probabilità all’inizio del XII secolo. Viceversa le superfici dipinte dello zoccolo dei muri dei corridoi che davano accesso alla camera centrale sono le parti meglio conservate della decorazione della cripta. Si tratta di grandi rotae costituite da bande concentriche intersecate da linee radiali, suddivise in sezioni che sfruttano un certo numero base di forme e una limitata gamma di colori in variazioni apparentemente infinite, alternate a pannelli rettangolari recanti composizioni prospettiche estremamente raffinate. Così come le varie configurazioni di linee e colori utilizzate nelle rotae sono combinate in modo da dare l’impressione di superfici, a seconda dei casi, concave o convesse o anche inclinate in piani angolari, così i pannelli rettangolari sfruttano elementi illusionistici tridimensionali affiancati a motivi con orientamento diagonale, regolari solidi geometrici disposti in elaborate sequenze prospettiche o ancora complessi accordi di superfici sfaccettate. In realtà le configurazioni-base rimangono sempre le stesse (triangoli, quadrati, rettangoli schiacciati, losanghe, rombi e parallelogrammi), mentre ciò che varia sono le combinazioni di volta in volta applicate. Si può tranquillamente affermare che tali motivi compositivi non abbiano paralleli nell’Europa altomedievale, sia per la brillantezza dei colori usati che per la varietà e sofisticazione delle invenzioni. I pannelli erano poi separati dall’ordine superiore dello zoccolo sottostante da una elegante fascia ingemmata, costituita da una banda colorata in rosa e rosso profondo al centro della quale corre una catena di “perle” bianche e di castoni per pietre preziose alternativamente circolari e quadrate. Questo motivo decorativo compare anche in altri ambienti del monastero risalenti al IX secolo, mentre il secondo tipo di bordatura presente nella cripta, costituito da una fascia continua e serrata di cubetti inclinati a 45° rispetto al piano del muro, non trova paralleli in contesti altomedievali, bensì in una serie di edifici a Pompei oltre che nella casa dei Grifi sul Palatino a Roma. Giunti poi nel corridoio assiale che conduceva alla camera delle reliquie, ci si trova di fronte a una splendida composizione di croci di Sant’Andrea in blu e in rosso e in grandi losanghe bianche, estesa per tutta la parte bassa dei muri. Un grande scrigno sistemato in una nicchia rettangolare, probabilmente dotata di arcosolium, custodiva le reliquie nella confessio, affiancato da due eleganti urne funerarie di marmo bianco scanalate, risalenti all’epoca romana, in cui erano conservate altre preziose reliquie della comunità. Nelle pareti della camera furono scavate quattro nicchie, grosso modo a forma di U, di cui le due rivolte ad est erano decorate con una figura di abate orante, mentre le due di fronte erano leggermente più piccole e avevano un’immagine di santo. La parte bassa della muratura non era invece affrescata, il che suggerisce che vi dovevano essere appesi drappi di seta (vela), come si può anche dedurre dalla presenza di un gancio di ferro rinvenuto in situ. Una piccola fenestella in tegole aperta nelle pareti del vano consentiva la venerazione delle reliquie dalla navata della chiesa. Il repertorio figurativo doveva trovarsi sulle volte e sulle parti superiori dei muri dei corridoi anulari e doveva consistere in figure chinate di angeli e di santi. Purtroppo queste parti, come già si è detto, vennero smantellate in maniera sistematica al momento del definitivo abbandono della cripta, nel XII secolo. Con ogni probabilità gli affreschi furono completati dopo la morte di Giosuè (792-817), dunque all’epoca dell’abate Talarico (817-824), sotto la cui supervisione furono realizzati anche l’atrio e l’eastwork. La nuova chiesa abbaziale era il centro di gravità intorno al quale si distribuiva tutto il resto del monastero. A sud di esso, forse separate da un alto muro, vi erano le officine per la lavorazione dei vetri e dei metalli, mentre a nord si trovava l’area claustrale vera e propria. Il refettorio fu allora totalmente ridisegnato e ricostruito, le cucine e i magazzini formarono l’ala est del complesso, mentre l’ala sud del chiostro, a diretto contatto con la chiesa abbaziale, era probabilmente occupata dai dormitori. L’integrazione di vecchio e nuovo avvenne con la costruzione di due lunghi passaggi posti su due livelli: quello inferiore connetteva all’abbazia i quartieri monastici, per poi proseguire fino al settore riservato agli ospiti di riguardo (situato nel vecchio nucleo di costruzioni); quello superiore permetteva l’accesso ad altri edifici non ancora esplorati archeologicamente, situati sulle terrazze soprastanti. All’estremità settentrionale del corridoio inferiore si trovava la priomitiva sala capitolare, dotata di sedili lungo le pareti e di notevoli affreschi raffiguranti una serie di profeti, al di sotto dei quali correva una decorazione a finti pannelli di marmo. Di altre pitture molto belle si conservano tracce nella primitiva “chiesa sud” (il San Vincenzo Minore), che proprio in quest’epoca venne totalmente ricostruita secondo la tipologia dell’aula a due piani. Degno di nota per la sua eleganza è anche il piccolo peristilio che poneva in comunicazione la “chiesa sud” e il refettorio. Fiancheggiato su tre lati da un portico colonnato di reimpiego, conduceva a quello che probabilmente era il refettorio per gli ospiti di riguardo, situato in un edificio finemente decorato che si erge lungo il fianco destro del peristilio. Sul Colle della Torre si trovava in questo periodo una grande area cimiteriale circondata da vari edifici che sono ancora da studiare, così come anche nell’atrio del San Vincenzo Maggiore si formò nel corso del IX secolo un’area cimiteriale che è in corso di scavo. Con l’abate Epifanio (824-842), cui si deve la splendida cappella funeraria affrescata casualmente scoperta già agli inizi del XIX secolo, si conclude il periodo di maggior splendore di San Vincenzo. Gia il terremoto dell’847 causò gravi danni al complesso monastico, poi con l’arrivo dei Saraceni nell’881 l’area venne quasi completamente distrutta dalla furia bellica e dalle fiamme. Solo verso la fine del X secolo si ebbe una ripresa di vita nel monastero. Si succedettero una serie di abati che adottarono la politica di demolizione degli edifici ormai pericolanti, conservando in uso solo la “chiesa nord” e l’abside della “chiesa sud”, per poi procedere a una nuova ricostruzione. Con l’abate Gerardo (1076-1109) si ebbe però l’abbandono definitivo del complesso, che venne trasferito sull’altra sponda del fiume Volturno, in una zona dunque maggiormente difendibile e fortificata. Il 20 aprile 1117 papa Pasquale II compì la dedicazione della nuova chiesa, ponendo fine al culto per San Vincenzo che fino a quel momento si era conservato nell’abside centrale della chiesa di IX secolo. L’ultima parte della conferenza si è occupata di quelli che saranno gli sviluppi futuri di questo sito archeologico di eccezionale ricchezza e importanza storica. Federico Marazzi, il quale interverrà personalmente già forse nel numero di settembre di questa rivista proprio su questo argomento, ha prospettato la creazione di un parco archeologico da realizzarsi entro l’anno 2000, anche in vista dell’afflusso turistico che si avrà in quel periodo in occasione del Giubileo. Gli scavi naturalmente continueranno, ma si cercherà di rendere fruibili ai turisti i risultati di tali esplorazioni, organizzando una rete di infrastrutture che rendano possibile la comprensione del sito e una sua sempre maggiore valorizzazione.

Valeria Beolchini

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