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Brevi note storico-canoniche sul passaggio dalla penitenza pubblica alla confessione individuale e segreta dei peccati in epoca medievale

 

1. Osservazioni  introduttive

E’ noto agli storici che, negli ultimi secoli del medioevo, la confessione individuale dei peccati per mezzo dell’amministrazione del sacramento ecclesiastico della penitenza assunse caratteristiche nuove e peculiari, collocandosi al centro di un reticolo di rapporti sempre più stretti e disciplinati, intercorrenti tra l’istituzione ecclesiastica ed i fedeli cristiani.

Lo scenario di questa realtà, e delle vicende ad essa connesse, poteva essere individuato nel territorio della cristianità latina d’Occidente, dopo che la separazione formale delle Chiese di rito greco d’Oriente, verso la metà del secolo XI, aveva sancito una divaricazione che non fu soltanto istituzionale, ma che si rifletteva profondamente anche sulla prassi sacramentale e, dunque, sul complesso delle questioni teologiche e delle manifestazioni della vita religiosa dei cristiani.

Conseguentemente, il passaggio al nuovo sistema penitenziale, che avvenne in sostanza a partire dal secolo XII, non interessò le Chiese separatesi dalla comunione con la Chiesa di Roma.

Sarebbe intervenuta, poi, ad accentuare ed estremizzare le conseguenze di tale passaggio, la frattura della cristianità occidentale, verificatasi a partire dai primi decenni del secolo XVI, allorquando le posizioni di Martin Lutero e degli altri riformatori comportarono un’ulteriore diversificazione nell’ambito dei comportamenti religiosi dei fedeli, come esito della frattura istituzionale che interessò in modo netto e principale, tra le altre, proprio il sacramento della penitenza.

All’inequivoca obliterazione della tradizione ecclesiastica e pastorale degli ultimi secoli del medioevo da parte delle Chiese uscite dalla Riforma avrebbe fatto, in seguito, riscontro la progressiva evoluzione di quel sistema penitenziale che portò alla disciplina e alla prassi pastorale della Controriforma tridentina.

Seguono alcune osservazioni, in estrema sintesi, sull’iter che condusse al tramonto della penitenza pubblica altomedievale, e alla conseguente nascita della confessione individuale segreta, negli ultimi secoli del medioevo.

2. La nuova prassi di amministrazione del sacramento della penitenza: la penitenza germanica o “tariffata”

Nei primi secoli dopo Cristo il sacramento della penitenza era amministrato in forma pubblica.

Dai documenti dell’epoca, è noto infatti che a quell’epoca i peccatori, riconosciuti come tali a seguito di un rito di pubblica accusa delle proprie colpe, celebrato alla presenza del Vescovo diocesano e della cittadinanza, venissero incorporati annualmente in una sorta di sodalizio, definito “Ordo paenitentium”, con il quale partecipavano ad una serie di cerimonie penitenziali di espiazione.

Durante la messa, entravano in chiesa in gruppo, pronunciando specifici canti e formule penitenziali, e sedevano in appositi scranni loro riservati. Al momento della consacrazione, erano invitati ad uscire e non potevano partecipare al rito eucaristico, né potevano essere ammessi alla Comunione.

Durante il periodo della Quaresima le cerimonie penitenziali si intensificavano e raggiungevano il loro culmine nei giorni precedenti il rito pasquale, durante il quale i penitenti, dopo che erano stati loro rimessi i peccati, venivano riammessi nella comunità dei fedeli.

Con il tempo, il sistema penitenziale basato sulla confessione pubblica delle colpe entrò progressivamente in crisi, venendo sempre più osteggiato dai fedeli, soprattutto da quelli appartenenti alle classi sociali più elevate ed agiate, considerato che per costoro accusare pubblicamente, “coram populo”, i propri peccati presentava ovvi problemi di sconvenienza sociale.

Pertanto andò affermandosi, intorno al secolo XI, un nuovo sistema penitenziale di origine germanica, la cosiddetta penitenza “tariffata”, ossia una modalità segreta di amministrazione della penitenza, a seguito di una confessione riservata dei propri peccati resa da parte del fedele al sacerdote. Venne individuato, su tale premessa, nei “libri paenitentiales”, un preciso rapporto tra tipologia di peccato e tipologia di penitenza, attraverso un sistema predeterminato di “tariffe”.

In verità, attraverso tale evoluzione si assistette lentamente all’instaurarsi di una nuova e diversa concezione del peccato, non soltanto a livello dottrinale, nel momento in cui l’obbligo della confessione individuale dei propri peccati spingeva in qualche modo ad una diversa forma di consapevolezza interiore, che avrebbe condotto negli ultimi secoli del medioevo ad un nuovo sistema penitenziale dove, più che l’esatta individuazione della corrispondenza fra colpa e pena, la confessione del penitente e la sua connessa interrogazione da parte del sacerdote avevano piuttosto di mira l’esatta determinazione dei peccati commessi.

Questo processo vide nel decreto sulla penitenza “Omnis utriusque sexus”, approvato nel Concilio Lateranense IV del 1215, una tappa fondamentale, in cui veniva messa al centro della pratica del sacramento il momento della confessione orale del fedele, peccatore e penitente. L’obbligo dell’assoluta segretezza, cui era tenuto in primo luogo il confessore, divenne anche formalmente l’unica regola di amministrazione della penitenza, al quale venne affiancato l’ulteriore obbligo di confessione annuale dei peccati da parte dei fedeli.

Il principio della corrispondenza tariffaria tra colpa e pena venne tuttavia in seguito mitigato nel “Tractatus de poenitentia” inserito nel “Decretum” del monaco camaldolese Graziano, redatto intorno al 1140, conferendosi un ruolo assai articolato al confessore, in particolare nell’imporre da parte sua al penitente un rimedio penitenziale appropriato, vale a dire non utilizzando in maniera meccanica le corrispondenze di peccati e relative sanzioni,  bensì attribuendosi una discrezionalità al sacerdote nell’individuare le penitenze adeguate al caso concreto.

3. Considerazioni sulla struttura interna del rapporto tra penitente e confessore nella confessione individuale

Nella disciplina della confessione individuale, in ogni caso, a produrre le maggiori trasformazioni furono gli esiti della riflessione teologica sviluppatasi nel corso del secolo XII, al cui interno si affermò e fu codificata la definizione del sacramento e delle sue parti necessarie: “cordis contritio”, “oris confessio” e “operis satisfactio” (pentimento del cuore, confessione orale e soddisfazione penitenziale). Momento nodale di tale evoluzione fu senza dubbio la condanna delle dottrine teologiche di Pietro Abelardo, pronunciata dal Concilio di Sens del 1140: a partire dalla metà del secolo XII, la penitenza era entrata compiutamente a far parte dei sette sacramenti della Chiesa, con una connessa dislocazione nel peso delle sue rispettive parti all’interno del rituale liturgico e il conseguente ruolo del sacerdote nella sua amministrazione.

Se fino a quel momento la discussione verteva sul rapporto fra la “attritio”, un pentimento imperfetto del peccatore perché dettato nella sostanza dal timore, e la “contritio”, vale a dire un autentico pentimento interiore, gradualmente si verificò uno slittamento fra il concetto e la prassi del pentimento e della penitenza, che vennero in pratica fatti coincidere, con il risultato di rendere la “satisfactio” spesso puramente formale: il dolore che si esprimeva nell’autentico pentimento aveva già di per sé la funzione di pena espiata per i peccati commessi.

Anche se la sottile distinzione non era certo facilmente percettibile dai peccatori penitenti, e forse nemmeno da molti sacerdoti confessori, più chiaro risultava al contrario lo spostamento semantico nelle denominazioni correnti. Non appena diventata sacramento, la penitenza fu abbastanza rapidamente identificata nel momento del rituale liturgico al quale ormai veniva assegnata la maggiore importanza: non soltanto nel linguaggio comune, bensì anche nella letteratura religiosa e teologica venne indicata con il termine corrente di “confessione”.

Un problema indubbiamente centrale nel passaggio dalla penitenza sacramentale altomedievale al sistema pastorale prescritto dalle disposizioni conciliari del 1215 fu senz’altro costituito dall’atteggiamento del penitente, che nei termini teologici dell’epoca veniva appunto indicato con i due termini di “attritio” e “contritio”: con la comparsa intorno al 1060 del trattato, attribuito a Sant’Agostino, “De vera et falsa poenitentia”, e destinato ad essere ampiamente utilizzato nel corso del secolo XII, la “contritio” si identificava con la penitenza al posto della “satisfactio”. Non era irrilevante, però, che ad indicare il ruolo del sacerdote nell’amministrazione della penitenza venisse utilizzata in maniera caratteristica già dai “libri paenitentiales” una metafora medica, richiamata anche dal titolo di un importante parte dell’opera di Burcardo di Worms, “Corrector sive medicus”: certo destinata a mantenere la propria presenza anche nei secoli a venire, ma gradualmente affiancata, e progressivamente soppiantata, a partire dal secolo XIII da una ben diversamente efficace metafora giudiziaria, che faceva del sacramento un “foro penitenziale”, o “interno”, e del sacerdote un giudice delle anime, e che avrà il suo sbocco nei “tribunali della coscienza” dell’età tridentina.

Il mutato ruolo del sacerdote nell’amministrazione della penitenza sacramentale si evolveva, innanzitutto, nell’ambito della determinazione della pena che veniva imposta per l’espiazione del peccato commesso, spostandosi dall’individuazione della “satisfactio” da imporre al peccatore, all’accertamento della proporzione esistente fra peccati commessi e sostenibilità della corrispondente sanzione ecclesiastica.

La definizione della penitenza come sacramento si inseriva nel contesto della nuova ecclesiologia, derivata dall’affermazione del movimento per la riforma della Chiesa, vale a dire con una ben diversa enfasi sul ruolo del clero, quale si manifestava nei decreti conciliari del secolo XII, in base alle cui disposizioni ad esso venivano affidate funzioni pastorali che ne presupponevano, al tempo stesso, una progressiva sacerdotalizzazione e una maggiore formazione dottrinale e liturgica.

Gradualmente l’assoluzione del sacerdote acquistò un effetto causale: non fu soltanto la dichiarazione del perdono divino, ma una vera e propria “sentenza”: dal potere delle chiavi derivavano due modi di sciogliere e di legare, nel “foro penitenziale” e nel “foro giudiziale”, ovverosia nel “foro interno” e nel “foro esterno”.

Prof. Ciro Tammaro

Centro Studi Francisco Suárez (Caserta)

 

BIBLIOGRAFIA

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